Campane e concerti storici - Regione Trentino Alto Adige
AREA II - ARCHIVIO STORICO (ARS)
Cap. ARS-H17 - Rassegna bronzi storici - Pag. ARS-H17.03
Gli argomenti trattati sono stati inseriti da Ing. Arch. Michele Cuzzoni nel 2010 - © Copyright 2007- 2024 - e sono desunti dalla documentazione indicata in Bibliografia a fondo pagina
(TN) - Torbole: l'antica Campana del 1768 - di C. Moser
Per la storia delle campane, strumenti musicali ed espressioni artistiche:
La campana di Torbole: Figg. 1, 2, 3
La campana di Torbole: dettagli, figg. 4, 5
Questo mio contributo trae origine dalla
ricerca svolta in occasione della mia tesi di laurea, discussa presso
l’Università degli Studi di Trento[1].
Il lavoro è stato preceduto dall’esperienza di tirocinio che ho potuto svolgere
presso la Soprintendenza per i Beni storico artistici[2]
dove, schedando e dando un primo ordinamento ad un fondo relativo a documenti
dell’ex Soprintendenza, ho avuto tra le mani gli appunti di Pietro Zampetti poi
confluiti negli articoli pubblicati tra il 1948 e il 1950 su “Cultura Atesina –
Kultur des Entschlandes” con il titolo “Campane antiche del Trentino. Tentativo
di un catalogo”[3].
Da qui ho impostato le ricerche su questo oggetto “sconosciuto”
e, con mia sorpresa, ho scoperto che alcune delle più importanti personalità
culturali del Trentino, Guido Boni, Giuseppe Gerola e Nicolò Rasmo, avevano già
inteso l’importanza di un lavoro di recupero e studio. L’intento e l’obbiettivo
che mi posi, con l’aiuto del mio relatore e della correlatrice Luciana
Giacomelli, fu di continuare questa ricerca tentando di creare una mappatura del
territorio della provincia delle campane ancora presenti coprendo un arco
cronologico che va dalle prime attestazioni della metà del XIV secolo fino al
1850. Questo limite, posto già da Zampetti nei suoi articoli, è stato rispettato
per poter meglio approfondire un campo altrimenti vastissimo ma soprattutto
perché la produzione di campane si arenerà su modelli ripetuti e standardizzati
dopo il 1850. Parallelamente ho condotto uno studio teorico sul bronzo: le origini, le varie
tecniche di lavorazione e il loro cambiamento nei secoli, e analogamente
sull’origine, l’evoluzione e la storia delle campane fino alle recenti
requisizioni austriache. Infine ho raccolto delle informazioni sui fonditori
cercando di creare un dizionario. Questo articolo, in particolare, vuole analizzare e presentare ad un pubblico
più vasto la bellissima campana che fu di Torbole. L’idea è nata durante
l’elaborazione della mia tesi, quando, inseguendo informazioni su questo bronzo,
mi sono trovata a dover ripercorrere tutti i suoi spostamenti. Grazie ad Aldo
Miorelli che mi ha aiutata fornendomi documenti e informazioni per me altrimenti
difficilmente reperibili, sono riuscita a presentare oggi gli esiti della mia
ricerca.
In questo lavoro vorrei cercare di descrivere, ma soprattutto di
far cogliere, l’importanza di questo oggetto che senza dubbio definirei
artistico, di raccontarne le “avventurose” vicissitudini che l’hanno condotto
fino ai giorni nostri.
Originariamente destinata al campanile della chiesa di S. Andrea
a Torbole, la campana ora si trova nei depositi del Museo del Buonconsiglio.
Si tratta di una oggetto in bronzo del peso di 189
chilogrammi fuso nel 1768 da
Giuseppe Ruffini con tono “La”.
Osservando la campana settecentesca si notano immediatamente le
fiorite fasce decorative che scandiscono dall’alto verso il basso la struttura,
inframmezzate da scene sacre ed effigi di santi.
Partendo nell’analisi dal registro superiore si
nota come la corona, o manico, sia stata ornata con piccole teste e con racemi
di vite ma la vera e propria decorazione inizia con la testata, o la calotta
superiore, caratterizzata in questa come nelle altre campane di Ruffini da un
visibile rigonfiamento che la rende simile ad un berretto. E’ impreziosita da
una larga fascia con mascheroni, teste di putti e foglie d’acanto posti uno
accanto all’altro. Procedendo verso il basso troviamo un cordone formato da
piccole foglioline sovrapposte come squame di un serpente e una fascia formata
da girali di foglie e, curiosamente, da una sola cariatide situata in
corrispondenza dell’Annunciazione.
Sul corpo centrale del bronzo sacro, detto anche
gola, accompagnate da festoni di fiori e frutta, sono collocate le scene sacre
principali: l’Annunciazione, la Visitazione, Cristo battezzato da S. Giovanni
Battista e Cristo crocefisso con ai lati S. Giovanni Nepomuceno e S.
Vincenzo Ferreri.
La campana di Torbole: dettagli, figg. 6, 7, 8,9
Nell’Annunciazione
(fig. 8) l’Angelo è posto a destra e, inginocchiato, indica con la mano il cielo
richiamando alla memoria il suo “mandante” celeste, a sinistra, intenta a
leggere, è rappresentata Maria mentre in alto lo Spirito Santo in forma di
colomba manda il suo Spirito. Al centro, dietro ai personaggi a mo’ di quinta, è
posta una palma mentre a sinistra, accanto alla Madonna, è posto un cesto di
fiori e frutta. Questi elementi aggiunti alla scena principale forse si possono
considerare allusioni all’”hortus conclusus”, rappresentazione della
verginità di Maria[4],
ma si può anche ipotizzare che la palma sottintenda alla leggenda legata
all’episodio della “Fuga in Egitto” dove piegò i suoi rami perché la
Sacra Famiglia potesse coglierne i frutti.
Dal punto di vista tecnico si può rilevare che la scena non è
inserita all’interno di una cornice ed è composta di tre parti: i personaggi
centrali, lo Spirito Santo, e il cesto di frutta posto a lato; queste sezioni
probabilmente corrispondevano ad altrettanti stampi assemblati assieme di volta
in volta secondo i bisogni e i desideri del fonditore.
La Visitazione
(fig. 10) è forse la rappresentazione più modesta del “ciclo”
[5].
Anch’essa non è costretta all’interno di cornici ma, a differenza della
precedente, non ha un’ambientazione. Le due donne sono fronteggiate e
raffigurate nell’atto di stringersi le mani, a destra S. Elisabetta che
distoglie lo sguardo perché, cosciente del mistero che si compie di fronte a
lei, non si sente degna di quella visita, a sinistra Maria che la guarda
teneramente.
La campana di Torbole: dettagli, fig. 10
Maggiormente articolata, ma non perfettamente
fusa, è la scena del Battesimo di Cristo
(fig. 11). Il Battista è rappresentato con il caratteristico bastone a forma di
croce fasciato dal cartiglio[6]
stretto nella mano sinistra mentre con l’altra è intento a battezzare. Gesù, di
fronte a lui, è immerso fino alle caviglie in un ruscello e con le mani al petto
si china per ricevere il sacramento. Ai lati qualificano la terra ferma piccoli
ciuffi d’erba. Nel cielo, in mezzo a delle nubi raggiate, è rappresentato lo
Spirito Santo in forma di colomba, narra infatti il Vangelo che quando fu
battezzato Gesù “Uscì subito dall’acqua ed ecco gli si aprirono i cieli; e
vide lo Spirito di Dio scendere siccome colomba e venir sopra di lui”.
Questa è l’unica scena presentata all’interno di una cornice.
La campana di Torbole: dettagli, fig. 11
Cristo crocefisso con S. Giovanni
Nepomuceno e S. Vincenzo Ferreri
(fig. 12) può essere considerata a ragione la rappresentazione principale del
“ciclo”. La scena, come già quella dell’Annunciazione,
è stata assemblata con una pluralità di stampi, in particolare tre, per
assecondare il volere dei committenti che accanto a Cristo in croce hanno voluto
inserire dei santi cari alla chiesa e alla comunità.
La campana di Torbole: dettagli, fig. 12
A destra troviamo S. Vincenzo Ferreri, santo
variamente attestato ma che ritroviamo soprattutto nella vicina chiesa di S.
Maria Assunta di Riva del Garda dipinto da Giambettino Cignaroli (1706-1770)
poco dopo aver realizzato il magistrale “Martirio di S. Andrea” per la
nostra chiesa di Torbole[7].
E’ qui rappresentato in una delle sue iconografie più attestate: vestito da
domenicano, la fiamma sopra la testa che rappresenta il fuoco della sua
predicazione e l’ispirazione profetica, la mano sinistra che mostra un
crocifisso mentre la destra tiene un libro[8].
A sinistra S. Giovanni Nepomuceno[9]
santo protettore di Riva fin dal 1735[10]
anno prossimo alla fusione della nostra campana. E’ invocato contro le
inondazioni e spesso una sua statua viene posta in prossimità dei ponti[11].
Di questo santo non esiste un ritratto autentico perciò spesso, come nel nostro
caso, è rappresentato con barba e cappello mentre sorregge con la mano sinistra
il crocifisso e con la destra posa un dito sulle labbra a simboleggiare la sua
fedeltà al segreto confessionale.
Al centro dei due santi Cristo crocefisso. E’ raffigurato con il
capo rivolto verso la spalla destra, il perizoma svolazzante e un’anatomia ben
delineata ma proporzionalmente risulta essere più piccolo dei santi che lo
accompagnano. La croce è stata impreziosita da fiori e perle, decorazione che
richiama una delle fasce ornamentali presenti. Dal punto di vista tecnico il
Crocifisso ha un forte aggetto rispetto a tutti i rilievi presenti sulla campana
e ai santi che gli sono messi ai lati. Questo può confermare sia che i tre
personaggi non appartengono ad un solo stampo, sia la volontà del fonditore di
dare maggior risalto a questo che era sicuramente uno dei soggetti più
importanti della decorazione.
Scendendo ancora incontriamo un fregio di girali di foglie
d’acanto e un cordone formato da perle e fiorellini che suddividono la prima
dalla seconda scansione di raffigurazioni.
In questa seconda partizione troviamo S. Andrea
(fig. 13) raffigurato con la sua distintiva croce alle spalle e con un pesce in
mano che allude non solo alla sua professione e a quella del fratello prima
della chiamata[12],
ma alle parole dette da Cristo: “Seguimi, ti farò pescatore di uomini”.
L’inserimento dell’apostolo non è casuale, al santo è dedicata la chiesa e allo
stesso poco prima era già stata intitolata, come abbiamo già detto, la pala
posta dietro l’altare maggiore commissionata al Cignaroli.
La campana di Torbole: dettagli, fig. 13
Accanto è posta l’iscrizione (fig. 14) “SUMPTIBUS
COMMUNITA:/ TIS NAGHI ET TURBULÆ/ REFFECTA ET AUCTA/ A•D•1768” (Rifusa ed
accresciuta con il contributo della comunità di Nago e Torbole nel 1768)
decorata ai lati da teste di putti. Questa ci da delle utili informazioni,
possiamo infatti supporre la sostituzione di una campana precedente più
piccolina, forse fessa o non più intonata con le altre, con il bronzo di Ruffini
e sappiamo che questo è stato commissionato dalle comunità di Nago e Torbole.
Non sono rare su simili oggetti le attestazioni di questo tipo che dimostrano la
volontà di una o più comunità di fondere una campana e spesso sono accompagnate
da richieste di protezione e preghiera.
La campana di Torbole: dettagli, fig. 14
Più in là la data “A•D•/ MDCCLXIIX”[13]
nuovamente affiancata da teste di putti e decorata da girali di foglie.
Infine la bellissima e singolare firma di Ruffini
(fig. 15). Si tratta di uno stemma araldico, che il fonditore apponeva ai suoi
bronzi, composto da una campana affiancata sul lato sinistro da quelle che
sembrano onde, forse rappresentano le onde sonore, e sul lato destro da un leone
rampante. Sulla sommità è posta l’iscrizione “DIAPASON” con ai lati una mezza
luna ed un sole. All’interno della campana sono allineate su tre ordini dodici
campanelle accompagnate dalle note musicali e da una “leggenda” che riporta:
“SCALA•DEL•ORDINE•/DIATONICO•CROMATICO•/ET•ÆNARMONICO•”.La
campana maggiore poggia sugli strumenti allineati del fonditore sotto cui sta la
vera e propria firma “IOSEP•RVFFINI•REGII•FVN•/ EXTRVXIT•A•D•1768” (Giuseppe
Ruffini fonditore reale la fabbricò nel 1768).
La campana di Torbole: dettagli, fig. 15
La decorazione della campana si conclude sul bordo inferiore con
un bellissimo fregio formato da girali di tralci di vite con foglie e grappoli
d’uva e con un cordone formato da perle e fiorellini.
Ma gli elementi apposti su questo bronzo non sono
finiti, infatti sul corpo possiamo trovare dei piccoli animali non attinenti
alle figurazioni sacre ma inserite come ulteriore decorazione: uno scarafaggio,
una farfalla, una cavalletta, un ranocchio e un animale posto sotto la dedica
delle comunità non riconoscibile (fig. 16).
La campana di Torbole: dettagli, fig. 16
Osservandoli attentamente possiamo supporre
siano stati fusi con la tecnica definita “dal vero” o “a lucertola persa”[14]
come sicuramente sono state fuse le foglie di salvia poste ai lati di molti
elementi.
Cercherò ora di ripercorrere la storia piuttosto complessa di questo oggetto.
Dopo essere stata commissionata dalle comunità di Nago e Torbole nel 1768 a Giuseppe Ruffini, fonditore di grande fama, fu installata sul campanile della chiesa di S. Andrea. Probabilmente si andava ad aggiungere ad altre due campane già presenti, nel 1750 il curato del paese infatti scriveva: “In questa Chiesa vi sono due Campane le quali da chi, e quando sij state benedette non si ha alcun documento”[15].
Rimase sul campanile fino alla prima guerra mondiale quando, seguendo un destino comune ad altri bronzi sacri, venne requisita dal governo austriaco per ricavarne cannoni e armi. Fortunatamente si salvò, quasi certamente grazie al suo pregio artistico. I bronzi nel loro viaggio oltre il Brennero, infatti, sostavano in più campi: erano raccolti in un primo momento ad Innsbruck nei campi di concentramento di Wilten, la seconda tappa era a Salisburgo, nei campi di Kasern, ed infine a Vienna. In queste soste pare che i musei d’oltralpe approfittassero delle campane trentine per arricchire le loro collezioni con pezzi pregevoli.
Fu proprio a Salisburgo che nel 1920 l’Ufficio delle Belle Arti di Trento la ritrovò e la ricomperò.
La campana venne restituita dall’allora Soprintendente Giuseppe Gerola alla chiesa[16] dopo varie ricerche per definire da dove gli austriaci avessero prelevato quell’oggetto. Il parroco di allora, assicurato dal Vescovo dell’inutilità di una nuova benedizione, fece ricollocare la campana sul castello[17] del campanile, o almeno così sembra perché pochi anni più tardi incominciò a chiederne la rifusione. In una lettera del 1941, però, Giovanni Poli, l’allora parroco, asserisce che la campana non fu mai stata issata ma bensì conservata in un locale ad uso magazzino giustificando la scelta con il fatto che già quattro campane erano presenti sul castello che forse non ne avrebbe retto un quinta oppure ipotizzando che la campana non sarebbe stata collocata perché non intonata con il concerto presente, altre lettere ci riportano la notizia che la campana arrivò fessa al paese perché si ruppe durante il trasporto da Salisburgo, mentre Don Giovanni Gosetti raccontava.
Nel febbraio 1921, nel suonare la campana ricuperata con un battente a mano per segnalare il termine del carnevale si avvertì che essa era fessa. Tosto si scrisse all’Ufficio Belle Arti e all’Opera di Soccorso a Venezia chiedendo il permesso di rinnovare il contratto, per avere 4 campane invece che tre. L’Ufficio Belle Arti però oppose il veto alla rifusione della campana fessa e la dichiarò oggetto d’arte, prendendola sotto la sua vigilanza.
Solamente nel novembre si poté rinnovare detto contratto: lo si spedì in triplo all’Opera di Soccorso in Trento[18].
In ogni caso la parrocchia cominciò a prendere contatto con L’Opera di soccorso per le chiese rovinate dalla guerra[19] incaricata di rifondere le campane alle chiese derubate e con la ditta fonditrice “Cavadini Luigi & figlio”. Ma l’Ufficio delle Belle Arti, nella figura del soprintendente Gerola, fin da subito si oppose a questa rifusione: la campana venne per questo dichiarata oggetto d’arte e nel 1943 portata al Museo Nazionale dove è conservata a tutt’oggi.
Per il catalogo di GIUSEPPE RUFFINI (Reggio Emilia 1721 ca. – Verona 1801)
Giuseppe Ruffini, originario di Reggio Emilia, abita e lavora a Verona, dove aprirà una fonderia, di cui abbiamo notizie a partire dal 1776, nei pressi di Porta Nuova. Nella città, e non solo, si impose come maestro (o meglio “professore” come amava farsi chiamare) rivelandosi uno dei maggiori rinnovatori dell’arte della fusione.
Nel 1776, gettate già 28 campane per il solo Trentino, sappiamo fuse il bronzo maggiore per la chiesa di Colognola Veneta (di pesi 180) che utilizzerà come prova per poter accedere alla “Corporazione dei Calderai e Ferrari” veronesi, dove fu ammesso il 29 luglio dello stesso anno[20].
Lavorerà moltissimo non soltanto per la città scaligera: la sua fama, infatti, giungerà fino al Ducato mantovano ed al Principato Trentino.
Il fonditore diede un forte impulso all’affermarsi dei concerti di campane in scala grazie anche ai suoi studi sulla fonica; prima di Ruffini, infatti raramente le chiese possedevano più di tre campane. Contribuì inoltre all’introduzione di un nuovo modo di collocare e di suonare questi strumenti chiamato “sistema veronese”, ancor oggi attestato[21].
Dal punto di vista artistico diede un decisivo apporto nel rinnovare la ormai stanca decorazione dei bronzi sacri che dal XVI secolo si ripeteva pressoché invariata e vi introdusse la “ridondante” decorazione barocca. Le “trecce” della corona si arricchiranno di figure, la testata si rigonfierà cominciando ad assomigliare ad un cappello, i fregi e le iscrizioni non saranno più contenuti all’interno di una sola fascia. Il corpo della campana comincerà ad essere suddiviso in due parti dove verranno inserite le scene sacre sia contenute in cornici, sia libere e tutto il corpo verrà invaso da festoni. Anche il bordo inferiore non sarà mai lasciato libero ma ornato da cornici a motivi vegetali. Dal punto di vista stilistico, ho inoltre individuato un’ulteriore caratteristica del fonditore che spesso inserisce nei suoi bronzi piccoli animaletti in rilievo senza alcun nesso con la restante decorazione. Questi non sono costretti all’interno di cornici ma sistemati in libertà sopra un fregio o una linea di ripartizione quasi fosse il loro naturale appoggio. (figg. 17, 18, 19, 20) .
La campana di Torbole: dettagli, figg. 17, 18, 19, 20
Elemento di grande interesse è quello che viene definito lo “stemma araldico” del fonditore. Ruffini lo userà come “marchio di riconoscimento” per contraddistinguere le sue campane adottato al posto della semplice firma usata dai suoi “colleghi”. Venne inventato dal fonditore per rappresentare la sua arte e testimonia sia la sua cultura musicale sia la sua consapevolezza di essere un personaggio importante.
Suo collaboratore fu Anton Maria Partilora il cui nome comparirà accanto a quello del fonditore in alcune campane del veronese.
Ruffini morirà a Verona, nella parrocchia di S. Maria in Chiavica, il 24 ottobre 1801[22] lasciando due grandi allievi, Bartolomeo Chiappani e Pietro Cavadini, che segneranno l’epoca successiva lasciando pregevoli bronzi anche nella provincia di Trento.
La campana di Torbole: dettagli, figg. 21, 22, 23, 24, 25, 26
Campane fuse dal fonditore
1755 tre campane per Vigo-Darè (due sono andate perdute, la mediana è stata venduta ed ora è a Pelugo);
1764 tre campane per Fondo;
1768 Cavedine, Torbole;
1772 Seo (Stenico), quattro campane per Vallarsa, Sclemo (Stenico, perduta), Museo diocesano (proveniente da Bondo, perduta), due campane per Cavrasto (Bleggio Superiore, perdute);
1773 Pelugo (perduta), Vigo Rendena (perduta);
1774 Albiano, Banco (Sanzeno);
1775 Seio (Sarnonico), cinque campane per Fondo (perdute), Rovereto (perduta);
1777 Bezzecca, Calliano, Malè, Ossana, San Vito (Pergine Valsugana), Rizzolaga (Piné), Castagnè (Pergine Valsugana, perduta), Ischia (Pergine Valsugana, perduta);
1779 Bordiana (Caldes), Lardaro (perduta);
1780 due campane per Ala, Medil (Moena);
1781 Cares (Bleggio Inferiore), Volano, Rovereto (perduta);
1782 Condino;
1783 Volano, Vigalzano (per cui lavora assieme all’allievo Giovanni Chiappani, Pergine Valsugana, perduta);
1784 cinque campane per Primiero, due campane per Tonadico;
1786 Roveda (Frassilongo, perduta);
1791 Cimone (perduta);
1798 Rovereto (fusa a Montorio diocesi di Brescia da Pietro e Giuseppe Ruffini; perduta).
Il bronzo non esiste allo stato naturale ma è una lega scoperta all’incirca nel 3000-2800 a.C. forse in Mesopotamia, Egitto o India, e introdotta in Europa un migliaio di anni dopo. E’ formata principalmente da rame e stagno. Il suo nome, che significa appunto lega di rame e stagno, venne usato per la prima volta dall’italiano Vannuccio Biringuccio nel De pirotechnia libri X, il più antico trattato sulla metallurgia (edito per la prima volta nel 1540).
Le metodologie per la fusione di questo metallo e le tipologie degli stampi sono variate nei secoli e in base agli utilizzi, citando le principali, si deve parlare del “calco solido”. Si tratta del metodo più semplice e antico. Lo stampo si ottiene con due lastre di un materiale resistente al calore, ad esempio l’argilla, sagomate fino a formare il calco dell’oggetto da fondere e poi fatte combaciare. Nella cavità così formata viene colato il metallo fuso. Gli svantaggi sono consistenti, primo fra tutti la grande quantità di lega necessaria: l’oggetto, infatti, risulta “pieno”, inoltre sono frequenti i rischi di difetti di fusione provocati da bolle d’aria. Per far fronte a questi inconvenienti i greci introdussero il “calco cavo”. In questo caso si crea un modello in legno dell’oggetto da fondere. Questo viene poi rivestito con dell’argilla che, una volta asciutta, forma un calco perfetto dell’oggetto. Il modello in legno viene poi raschiato per diminuirne le dimensioni e ancorato all’interno del calco per mezzo di aste di ferro. Tra l’anima in legno e il calco in argilla si è così ottenuta un’intercapedine dove verrà gettato il bronzo.
Il metodo più sfruttato fin dall’antichità classica è, però, quello definito “a cera persa”, utilizzato anche per la fusione “piena” di piccoli oggetti e per metalli diversi dal bronzo come l’argento. Di questa tecnica parlerà a lungo Benvenuto Cellini nei suoi Due Trattati (Firenze 1568), in particolare nel trattato sulla scultura dove tratterà minuziosamente tutte le fasi della costruzione di uno stampo.
La possibilità di riprodurre i più piccoli dettagli e, al contempo, di fondere statue anche molto grandi garantì il successo di questo procedimento.
Questa tecnica prevede la costruzione di un’anima o nucleo di materiale resistente al calore, in genere argilla o sabbia grezza. Quest’anima viene poi ricoperta di cera d’api, resa malleabile con resine e oli, in uno strato variabile in genere dai 3 ai 5 mm che corrisponderanno allo spessore del calco che si andrà ad ottenere.
Sulla cera possono essere ora inseriti molteplici particolari e applicate le decorazioni previste ottenibili in vari modi ad esempio modellando la cera o imprimendola con punzoni in legno. Un’altra tecnica di decorazione consiste nell’inserire a questo punto degli oggetti “presi dal vero”. Questo metodo, usato in particolare nel primo manierismo, era chiamato “maniera-rustica” o meglio “metodo a lucertola persa”. Gli oggetti utilizzati a questo scopo in passato sono stati i più disparati: foglie, rami, lucertole morte che avrebbero lasciato il loro calco nello stampo.[23]
Nel nostro caso la campana riporta vari animali che possiamo supporre essere stati fusi con questo metodo con l’aiuto però di supporti, ad esempio, le antenne e le zampe molto probabilmente sono state “rinforzate” con piccoli bastoncini perché altrimenti risulterebbero troppo sottili e invisibili. Sicuramente fuse con questa tecnica sono, invece, le foglie di salvia poste ai lati di alcune scene e di alcune iscrizioni. La foglia di salvia usata in questo modo è una decorazione molto frequente sulle campane di ogni epoca. (fig. 26)
E’ importante ricordare, inoltre, che il modello ottenuto spesso ricalcava un’originale in legno, argilla o in altro materiale. Questo accadeva soprattutto per gli oggetti di maggior prestigio ed era importante sia nel caso in cui la fusione non fosse andata a buon termine, sia per effettuare eventuali ritocchi e rifiniture a fusione avvenuta.
Sullo stampo viene poi plasmato dal materiale resistente al calore. Nell’antichità venne usata prevalentemente l’argilla con la quale si ricopriva il modello, inizialmente con uno strato fine che riuscisse a seguire e valorizzare le decorazioni volute dal fonditore, via via con altri strati sempre più “grezzi” e resistenti la cui “ricetta” veniva gelosamente tenuta segreta da ogni bottega. In questa fase vengono costruiti anche dei piccoli camini nell’argilla grazie a cilindri di cera da dove, durante l’asciugatura della stampo, che avviene in forno ad una temperatura di circa 500°C, la cera e i residui degli oggetti fusi dal vero e inceneriti fuoriescono mentre lo stampo si consolida.
Nell’intercapedine così formata verrà gettato il bronzo fuso.
Quando tutto si è ben raffreddato e consolidato lo stampo viene rotto, il bronzo ottenuto viene ritoccato e rifinito, le sbavature di fusione rimosse ed eventualmente viene applicato uno strato di patina o vengono apposte le dorature.
Prima di gettare una campana è necessario, innanzitutto, calcolarne grandezza e proporzioni: queste saranno determinanti nella formazione della tonalità della campana una volta fusa[24]. Ogni fonderia possedeva tutta una serie di modelli e calcoli che derivavano da una tradizione di bottega e da anni di esperienza che, assieme alle percentuali dei metalli che compongono la lega del bronzo, costituivano “segreti” custoditi gelosamente.
Una volta determinate proporzioni e volumi il fonditore deve predisporre lo stampo che, per la fusione di una campana, oggetto normalmente di dimensioni ragguardevoli, ha delle peculiarità.
Il primo elemento che il fonditore deve predisporre è il nucleo o armatura che assieme alla falsa campana andrà a formare quello che viene chiamato il “maschio” dello stampo. Viene composto in genere di mattoni refrattari accostati tra loro, all’interno viene lasciata una cavità e vengono formate delle piccole aperture alla base. I mattoni sono coesi tra loro con del filo metallico o chiodi di rame, ma nel passato poteva essere utilizzato anche un impasto di terra silicea mescolata ad acqua, sterco di cavallo e pelo di mulo o di cavallo, ovviamente con ricette variabili da bottega a bottega. Nella cavità all’interno del nucleo, invece, da questo momento verrà acceso un fuoco che, grazie alle aperture alla base del nucleo, potrà essere continuamente alimentato per permettere allo stampo di essiccarsi completamente.
Viene poi creata una sagoma in legno di noce che, perfettamente levigata, ancorata ad un perno e fatta ruotare su se stessa, viene utilizzata per poter sagomare la parte interna della campana. L’anima viene infatti modellata sopra il nucleo ed è formata dello stesso composto spesso utilizzato per saldare i mattoni che compongo il nucleo. Questo impasto viene steso in più “mani” e ogni volta lasciato asciugare grazie al calore emanato dal fuoco creato all’interno del nucleo[25]. Quando l’anima sarà perfettamente aderente alla sagoma e completamente asciutta si passerà sulla sua superficie, con l’aiuto di uno scopetto, un velo sottilissimo di cenere e legno bollito. Questo accorgimento servirà per poter creare un isolamento tra l’anima e la falsa campana che, altrimenti, rischierebbero di fondersi assieme.
Sopra l’anima si andrà quindi a formare quella che viene definita “falsa campana”. Il fonditore procederà a modellare vari strati utilizzando lo stesso impasto impiegato finora ma con percentuali maggiori di pelo e sterco, fino a quando, con l’aiuto di una nuova sagoma in legno, otterrà la forma voluta. La falsa campana viene quindi fatta asciugare e viene colmato il fisiologico “ritiro” dovuto all’essiccazione. Sul modello viene ora applicato un sottile strato di grasso animale che, fatto sciogliere, si solidificherà immediatamente. Verranno poi applicate a cera tutte le decorazioni, immagini sacre e iscrizioni volute ed eventuali oggetti da fondere “dal vero”. La falsa campana si presenterà come la copia esatta della campana finita.
Infine viene realizzata la “camicia” anche chiamata “coperta” o “femmina” dello stampo. Si modella sempre sovrapponendo vari strati in questo caso con un composto definito “luto” di pelo, sterco e terra passata al setaccio. Per dare più consistenza, inoltre, sopra viene stesa la “cartella” o “sporcacciotto” formato principalmente da pelo e sterco con vari rinforzi di filo di ferro e canapa. Lo stampo viene ora fatto asciugare completamente.
La falsa campana poi viene tolta dalla sua collocazione grazie anche allo strato di grasso che si era interposto tra lei e la camicia che, sciogliendosi, ha formato un intercapedine di pochi millimetri.
Lo stampo della corona nel frattempo è stato modellato a parte in cera ricoperta da mattoni tritati finemente e da gesso lavorati assieme con acqua, anch’esso fatto essiccare e successivamente applicato alla testa della campana.
Ora tutto lo stampo viene calato nella fossa fusoria, l’interno del nucleo viene riempito per dare più solidità e vengono formati dei condotti per far uscire i gas, il vapore del metallo fuso, quindi verrà tutto ricoperto di terra che sarà poi ben battuta.
Sono passati trenta giorni da quando la costruzione dello stampo è stata intrapresa[26], ora il metallo portato a fusione può essere gettato. Spesso in passato questo momento era preceduto da una benedizione che assicurasse la buona riuscita della colata. E’ necessario ora attendere qualche giorno per permettere al metallo di solidificarsi completamente, la campana viene poi recuperata, pulita e provvista di batocchio è pronta per essere sistemata sul campanile di una chiesa.
[1] C. Moser, Campane in Trentino: strumenti musicali ed espressioni artistiche, Università degli studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali, anno accademico 2003-2004, relatore Andrea Bacchi.
[2] Lo stage si è svolto nei mesi di febbraio - aprile del 2004. Mi hanno seguita nell’attività di riordinamento Claudio Strocchi e Livio Cristofolini, rispettivamente della Soprintendenza per i Beni Storico-artistici e di quella per i Beni Librari, e Andrea Giorgi quale tutor universitario. Colgo l’occasione per ringraziarli per la collaborazione che mi hanno costantemente accordato.
[3] P. Zampetti, Campane antiche del Trentino. Tentativo di un catalogo, in “Cultura atesina – Kultur des Entschlandes”, volume 4, 1948, pp. 134-139; P. Zampetti, Campane antiche del Trentino. Tentativo di un catalogo, in “Cultura atesina – Kultur des Entschlandes”, volume 1, 1949, pp. 33-38; P. Zampetti, Campane antiche del Trentino. Tentativo di un catalogo, in “Cultura atesina – Kultur des Entschlandes”, volume 3-4, 1949, pp. 115-122; P. Zampetti, Campane antiche del Trentino. Tentativo di un catalogo, in “Cultura atesina – Kultur des Entschlandes”, volume 1-4, 1950, pp. 68-70.
[4] V. Casagrande, L’arte al servizio della chiesa, volume II, Torino 1931-1932, pp. 44-47 e 57.
[5] La scelta del soggetto fu probabilmente determinata dalla presenza in paese della Confraternita della Visitazione.
[6] Spesso S. Giovanni Battista è rappresentato con un bastone a forma di croce ove è posto un cartiglio con le parole “Ecce agnus Dei”. In questo caso il cartiglio è solo ricordato e non porta iscrizioni che sarebbero state difficili da riprodurre nella fusione.
[7] La pala de “La Madonna con Bambino e i SS. Bartolomeo e Vincenzo Ferreri” venne dipinta dal Cignaroli per la chiesa di Riva nel 1744; due anni prima, per volere di Francesco Maria Giuliani, dipingeva il “Martirio di S. Andrea” per la chiesa di Torbole.
O. e C, Martinelli, Giambettino Cignaroli e il “Martirio di S. Andrea” a Torbole, in “La Giurisdizione di Pénede, n. 9, 1997, pp. 5-22
A. Miorelli, La chiesa di S. Andrea a Torbole, Arco (Tn) 2002, pp. 61-63.
P. Ambroggio, La Madonna col Bambino e i S.S. Bartolomeo e Vincenzo Ferreri, in La Chiesa di Santa Maria Assunta di Riva del Garda: Museo civico, 23 dicembre- 31 marzo 1990, catalogo della mostra a cura di Marina Botteri, Riva del Garda (Tn) 1989, pp. 126-127.
[8] M. Bertucci in Bibliotheca Sanctorum, volume XII, Roma 1969, pp. 1168-1175.
[9] J. V. Polc in Bibliotheca Sanctorum, volume VI, Roma 1965, pp. 847-855.
[10] In questi stessi anni sono state realizzate importanti statue del santo: quella posta sul porto di Riva, datata 1735 ed assegnabile ad artista bresciano, trasportata durante la prima guerra mondiale nei giardini a fianco della rocca e ricollocata recentemente sul lago, poco più a sud del sito originario e la statua presente a Nago, in un’edicola posta su un masso prospiciente il lago di Loppio, datata 1738 (vedi I capitelli nella vita della comunità di Nago, Torbole e Linfano. 1213 – 2001, in “La Giurisdizione di Pénede”, nn. 16/17, 2001, p. 54-56, 65/66. QUELLA DI MORI??? ANNO????
[11] Una statua raffigurante il santo si trova su molti ponti tra i quali potremmo ricordare, facendo solo alcuni nomi, quello di Limone sul Garda (BS), di Rallo, di Sacco, di S. Lazzaro a Lavis e soprattutto la bellissima statua di S. Michele all’Adige attribuita a Antonio Giuseppe Sartori e datata 1749 (per quest’ultima statua vedi A. Bacchi, L. Giacomelli, Antonio Giuseppe Sartori, in Scultura in Trentino. Il Seicento e il Settecento, a cura di A. Bacchi e L. Giacomelli, volume II, Trento 2003, pp. 309 e 321). Cfr. Casagrande 1931-1932, p. 231.
[12] S. Andrea e il fratello S. Pietro erano pescatori.
[13] Nella data la “M” è rappresentata con due “C” fronteggiate e separate da una “I” purtroppo male rappresentabile con i caratteri tipografici.
[14] Vedi il capitolo relativo alle tecniche di fusione.
[15] Si può anche supporre che una delle due campane che il curato nomina sia la piccola campana il cui bronzo è confluito nella campana del Ruffini, ma non abbiamo dati al riguardo.
[16] Tutte le lettere citate ed utilizzate sono conservate nell’archivio della parrocchia di Torbole in una busta intitolata “CHIESA. B. Accessori”, nel fascicolo “Campane”.
[17] Il castello consiste in un impianto collocato all’interno della cella campanaria che sostiene i bronzi. E’ stato introdotto per evitare che le campane, ancorate direttamente alle mura del campanile, suonando provochino delle pericolose oscillazioni che possono anche minare la solidità stessa dell’edificio. Fino al secolo scorso era costruito in legno, ora sostituito dal ferro.
[18] Dal “Memoriale” del parroco della chiesa di S. Andrea a Torbole.
[19] L’Opera di soccorso per le chiese rovinate dalla guerra venne istituita alla fine della guerra con sede nel palazzo Patriarcale a Venezia. Monsignor Giovanni Constantini ne era il presidente, ma, almeno per il Trentino, parte attiva la ebbe sicuramente Simone Weber. L’Opera stese un libricino “Statistica delle Campane asportate dalle provincie venete dai germanici e dagli austro-ungarici o distrutte nella zona di guerra” con indicazione per ogni paese delle campane asportate e del relativo peso. Ottenne dal Ministero delle terre liberate il materiale per rifondere le campane e la promessa che si sarebbe sobbarcato tutte le spese della rifusione, trasporto e ricollocazione dei bronzi.
Si stilarono per ogni provincia le liste dei fonditori preposti: per il Trentino un grande ruolo lo ebbe la ditta Cavadini.
Ma successe anche che l’Opera, non volendo, fu responsabile di una nuova ondata di rifusioni, i parroci infatti tentavano di far rifondere anche le campane sopravvissute perché si intonassero meglio con le nuove.
[20] L. Rognini 1979, p. 85.
[21] Il concerto fuso nel 1776 per San Giorgio in Braida diede i natali a questo nuovo sistema di suono.
[22] L. Rognini 1979, p. 85.
[23] Questa tecnica è stata utilizzata, ad esempio, anche per le colonne del Baldacchino di Bernini nella chiesa di S. Pietro a Roma dove è stato e fuso con la tecnica della”maniera-rustica” un ramo di ulivo.
[24] La tonalità di una campana è strettamente correlata al volume d’aria compreso in essa come avviene anche con le canne d’organo.
[25] Viene in genere consumata una quantità di carbone pari al 40-50% del peso della campana finita.
[26] Trenta giorni è il tempo impiegato mediamente per la costruzione e l’essiccazione di uno stampo per un bronzo di dieci quintali
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Bib-ST-000 - Testo di Ing. Arch. Michele Cuzzoni
Bib-ST-689 - Monografia di Chiara MOSER
BIBLIOGRAFIA su G. RUFFINI:
Bib-ST-113 - L. Rognini e L. Franzoni in “Fonditori di campane a Verona dal XI al XX Secolo”, a cura di L. Franzoni, mostra a Castelvecchio agosto-settembre 1979, p. 89.
BIBLIOGRAFIA GENERALE sull'ARGOMENTO:
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Bib-ST-691 - K. Atz, Kunstgesch. von Tirol und Vorarlberg, Innsbrück 1909
Bib-ST-692 - G. Boni, Antiche campane nelle Giudicarie, in “Tridentum”. Fascicolo IV, 1904, pp. 145-153.
Bib-ST-693 - G. Boni, Antiche campane nelle Giudicarie, in “Tridentum”. Fascicolo VI-VII, 1904, pp. 246-250
Bib-ST-694 - G. Boni, Antiche campane nelle Giudicarie, in “Tridentum”. Fascicolo X, 1904, pp. 433-441
Bib-ST-695 - Catalogo illustrato della mostra di arte sacra. Tenuta a Trento in occasione del XV centenario della morte di S. Vigilio, curato da V. Casagrande, mostra tenuta a Trento 15 giugno – 15 luglio 1905, Trento 1905
Bib-ST-696 - Catalogo del museo diocesano di Trento, curato da V. Casagrande, Trento 1913
Bib-ST-697 - C. Cennini, ( Il ) libro dell’arte, a cura di F. Frezzato, Vicenza 2003
Bib-ST-698 - G. Chini, Ruberie austriache a Rovereto. I ladri di campane, in “Alba trentina” 1920, pp. 59-68
Bib-ST-010 - Mons. G. Constantini, Statistica della campane asportate dalle provincie venete dai germanici e dagli austro-ungarici o distrutte nella zona di guerra, II edizione corretta, Venezia 1919
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Bib-ST-720 - P. Zampetti, Campane antiche del Trentino. Tentativo di un catalogo, in “Cultura atesina – Kultur des Entschlandes”, volume 1-4, 1950, pp. 68-79
Bib-ST-721 - T. Zoanetti, Campanili e campane delle Valli Giudicarie: decanati di Tione e Spiazzo Rendena, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento, corso di laurea in Lettere Moderne, anno accademico 1993-1994, relatrice Luciana Gicomelli.