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 Campane e concerti storici - Regione Emilia Romagna

AREA II - ARCHIVIO STORICO (ARS)

8ap. ARS-H05 - Rassegna bronzi storici - Pag. ARS-H05.09

Gli argomenti trattati sono stati inseriti da Ing. Arch. Michele Cuzzoni nel 2022 - © Copyright 2007- 2024 - e sono desunti dalla documentazione indicata in Bibliografia a fondo pagina


 

Le Campane di Dante

 

Monografia di Rossella Bonfatti

in «Bollettino dantesco», numero 5, settembre 2016

 

 

INDICE:

 

Le “campane di Dante”: una microstoria delle celebrazioni dantesche ravennati del 1921

 

"Io conosco il segreto delle campane,

ma non lo dirò a nessuno!"

Andreij Tarkovskij, Andreij Rublëv (1964)

 

 

Un concerto nella “zona del silenzio”: la «campana dei Comuni d’Italia» e le «campane di S. Francesco»

 

Di la dal valore artistico, dalle qualità musicali e dalla comune funzione pubblica, in bilico tra dimensione laica e dimensione religiosa, persiste tuttora attorno alle campane ravennati di Dante un’aura sacra e impenetrabile, che deriva loro dallo speciale significato identitario e simbolico assunto nel tempo, non scalfito dall’effimera fortuna toccata ad altri monumenti celebrativi concepiti per il sesto centenario (1).

Ma esiste pure una confusione – per lo più traslata dalla pubblicistica (spesso incline a sovrapporre storia dell’arte, storia urbana, storia della cultura materiale, storia locale e archeologia) nell'interpretazione di manufatti distinti, collocati nella “zona del silenzio”, che rispondono al nome di “campane di Dante”: da un lato la campana dei Comuni d’Italia, offerta dai sindaci, che reca nel decoro esterno gli stemmi municipali di Firenze, Roma e Ravenna, a suggello dell’unita civile riconquistata nel periodo post-bellico (2); dall’altro le campane di S. Francesco, che, con fregi e iscrizioni a carattere mistico-religioso, accentuano invece il messaggio spirituale dantesco in senso pastorale ed ecumenico (3).

Quali omaggi collettivi delle autorità politiche, religiose, dell’associazionismo cattolico e patriottico al poeta universale, le campane ravennati rientrano infatti con una propria differente semantica nella cronaca ufficiale del Secentenario, conservando anche uno specifico valore storico nella monumentalistica dantesca del Novecento (4).

Quella comunemente definita “campana di Dante” (ma, piu propriamente, campana dei Comuni d’Italia) fu concepita da Guido Biagi, modellata da Duilio Cambellotti e realizzata nelle Pontificie Fonderie Lucenti di Roma. Inaugurata il 14 settembre 1921, essa sormonta ancor oggi il monumento funebre che accoglie le spoglie del poeta (5). Da allora ogni sera, all’Avemaria, appunto "l’ora dell’omaggio a Dante" (6), tredici rintocchi si levano dal campaniletto a vela, per ricordare ai cittadini "l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo di c’han detto ai dolci amici addio; // e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more" (7). Proprio queste celebri terzine di Purgatorio VIII, 1-6, che parlano del congedo dal giorno, di un addio, di un doppio esilio, furono infatti incise in doppia fascia sulla campana, il cui suono sembra "come nuovo, più musicale di quello delle comuni campane, più profondo" (8). Si evoca in tal modo, grazie ad una rappresentazione liturgica e collettiva del tempo, un destino personale, una riflessione esistenziale che si dissolve nell’elegia e nella meditazione (9).

Quasi celata alla vista dei visitatori dalla cappella bracciofortesca, la campana dei Comuni "bene a ragione se ne sta in disparte, sulla torricella a giorno in mattoni" (10), dietro il sepolcro del poeta, per manifestare soltanto al vespro la propria "voce piena" (11). Ma quel suono, capace di creare, con le sue pause, i suoi intervalli malinconici e i suoi rintocchi solenni, una “lingua del cuore” immediatamente riconoscibile, corrisponde più al suono della "campana della chiesa" o a quello della “squilla” (la campana del comune della tradizione medievale), ad una funzione laica oppure ad una religiosa, come quella legata alla campana della compieta e del rito mariano? (12)

La risposta – come suggeriva Santi Muratori – va ricercata nella biografia universale e privata di Dante, pellegrino e proscritto, che, grazie al suono della “squilla”, ritorna dalla dispersione alla preghiera, al raccoglimento liturgico:

"L’esule errabondo ne’ suoi viaggi per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende ha udito tante e tante volte, sul far della sera rievocatrice, suono di campane lontane, fosse compieta, fosse il segno della cessazione del lavoro, fosse la dolce e sussurrante Ave Maria: campane di chiese, campane di torri civiche" (13).

Da veri strumenti di misurazione del tempo interiore, le campane udite da Dante a Ravenna (quelle della chiesa di S. Vitale e della Torre dell’Orologio, al pari delle altre che suonarono nelle stazioni del suo pellegrinaggio) rappresentano dunque – secondo il bibliotecario ravennate – la voce dell’esilio, del silenzio, della lontananza; tanto che, con una speculare identificazione tra culto letterario e culto religioso, la “campana di Dante” suona "l’Ave Maria di Dante" (14), per ricordare a tutti i viandanti, con il suo moto alterno e grave, l’officio liturgico, il rito delle ore canoniche che si concludeva con il completorio; e, in senso più figurato, l’idea del canto che si spegne per rinascere nel nuovo giorno, della finitudine che prelude alla salvezza. Nei versi incipitari di Purgatorio VIII, cosi densi di echi virgiliani, sono le memorie del passato a raggiungere, per mezzo del suono della campana, i lettori di ogni tempo:

"Ma quanta efficacia in questo breve quadro, quanta forza suggestiva in quel solo verso che rievoca la voce della campana lontana! Chi mai avrebbe potuto rappresentarci la commozione di quell’ora e di quel suono, il senso della malinconia, che vela gli occhi degli uomini, inducendo cosi soave desiderio di pianto? Segnando quel particolare cronologico, il poeta rilevava che in quell’ultima ora del giorno era per l’aria un sospirare di voci, come per bocche invisibili parlanti a invisibili spiriti" (15).

Il suono della campana suscita commozione nel "novo peregrin"; il suo rintocco risveglia in chi lo ascolta, in mezzo ai perigli, alle tribolazioni, agli affari quotidiani, memorie dolenti e dolci, meditazioni elegiache sul significato del ritorno, sulla nostra stessa esperienza terrena, tanto da domandare forse "il commento della musica più che quello della parola" (16). Per la loro intensità espressiva e per le loro qualità musicali, le celebri terzine di Purgatorio VIII, 1-6 possono essere perciò accostate ad un notturno, in cui la campana rinnova l’ora consacrata alla preghiera, segnando un desiderio beatifico di morte-rinascita. E difatti l’ora vespertina più avanzata, in cui – come ricordano tutti i commentatori – calano le tenebre sulla solitudine del mare e i naviganti, prima protesi, nelle ore diurne, verso la meta da raggiungere, rivolgono i loro pensieri indietro, verso il paese nativo.

E l’ora in cui il nuovo pellegrino, non ancora assuefatto alla tristezza di lunghi viaggi, e punto da un sentimento di tenera malinconia quando ode da lungi, una squilla che suona a compieta. La ‘campana di Dante’ s’abbranca al suo forte giogo con rostri d’aquila (17).

Tra gli elementi musicali che partecipano del mito della lontananza e dell’esilio, il suono della campana, da autentico sermo cristiano, accompagna il giorno morente, ma annuncia al contempo la salvezza del "mattinare"  (18). Alla "poesia del suono" subentra, secondo Corrado Ricci, la "poesia del luogo" (19): il sepolcro monumentale di Dante, accanto alla cappella della beata Solimea, al recinto bracciofortesco disseminato di arche (tra le quali spiccano quelle del profeta Eliseo e di Pietro Traversari, entrambi ricordati nella Commedia, rispettivamente in Inferno XXVI, 34-42 e in Purgatorio XIV, 97-111) e un contenitore di altre memorie. Ravenna, città sepolcreto, concentra difatti in se tre tombe e tre epoche, che vanno dal tardo-antico al Trecento: quella di Galla Placidia, quella di Teodorico e, infine, quella di Dante, ognuna delle quali rappresentativa di una coscienza storica: "la prima ci ricorda gli ultimi baleni dell’Impero di Augusto, sull’occidente; la seconda la disastrosa unione dei popoli nel rinascimento della società; la terza il dominio dell’idea cristiana nella vita civile e nelle lettere" (20). Per cui, anche nel silenzio la campana stende la sua eco, il suo soffio di eternità ("quando la campana tace cantano intorno le fronde degli alberi, quando la campana suona tacciono e ascoltano le genti") (21): questo è il paesaggio sonoro dei monumenti danteschi ravennati pensato da Corrado Ricci.

INDICE

 

La «campana dei Comuni» di Duilio Cambellotti

Per comprendere meglio la storia materiale della campana dei Comuni, si può interrogare l’archivio dell’artista Duilio Cambellotti (Fig. 1), autore del disegno e delle decorazioni. Due lettere private alla moglie, Maria Capobianco, fanno emergere, in particolare, i travagli del lavoro. Dalla prima traspaiono i suoi dubbi sull’esito della fusione e sull’aderenza di quest’ultima al progetto iniziale ("Desidero andare da Lucenti ove la campana e stata fusa o e nell’imminenza di essere fusa. Sarà venuta bene? Sara rispettata la forma? Quante domande?") (22). Gli stessi toni accorati ritornano nella seconda lettera, quando si sofferma sulla forma finale della campana, sulle sue dimensioni e proporzioni, che alimentavano il timore di non poterla issare nella torre a mattoni dietro la tomba del poeta:

"Allor fu la paura un poco queta, / che nel lago del cor m’era durata…"

Carissima, è il caso di dire cosi! Ieri si e risolta con la felice fusione della campana la tensione che mi teneva ormai da parecchi giorni; da quando, cioè, ne era cessata un’altra, quella dell’ampiezza della torricola che io supponevo per bestialità e malvolere più scarsa della bocca della campana. Cosi avanti di preoccupazione in preoccupazione. La fusione destava a me delle ansie perche la forma e gli equilibri della campana erano fuori d’uso. Ad ogni modo la cosa e riuscita brillantemente. La fusione e talmente perfetta che in alcuni luoghi si scorge l’impronta delle mia dita. Cosi per oggi sono calmo. Domani vedremo se vi è qualcosa di nuovo (23).

Fig. 1. Foto-ritratto di Duilio Cambellotti (1876-1960) eseguito nel 1898.

 

L’epigrafe, tratta da Inferno I (vv. 19-20) e la descrizione del lavoro contenuta nella lettera creano una perfetta risonanza dantesca: la prima enfatizza il pathos creativo di Cambellotti espresso nella seconda, dove domina una tensione emotiva sospesa tra timore e attesa, alla fine risolta nella corrispondenza tra la forma e la volontà artistica (Fig. 2).

 

Fig. 2. La campana dei Comuni d’Italia (Archivio Cambellotti: Archivio delle Arti Applicate, Gnam, Roma). Fotografia, 1921.

 

Di quella fusione restano nell’Archivio Cambellotti anche alcune preziose testimonianze fotografiche: in una prima, che reca la didascalia La campana dantesca e i pupi, si vedono i due figli di Cambellotti, Adriano e Lucio, posare orgogliosi a fianco della campana di Dante; in un’altra sono gli artigiani della fonderia romana, ripresi in movimento, a mostrarsi intorno alla campana in una sorta di celebrazione epica del lavoro; in un’altra ancora la campana e ripresa in primo piano vicino alla bocca del forno (24). Sono immagini che fissano per i posteri la sacralità della fabbricazione, il misticismo dell’artigianato che si consacra al poeta universale. Accostate alle fotografie ufficiali delle celebrazioni ravennati, con la deposizione ufficiale della campana nella torricella, le immagini di Cambellotti rivelano l’idea di un monumento nazionale dantesco, destinato a rappresentare lo spirito sacrale e patriottico, come trapela dalle parole di Corrado Ricci:

Nella campana, in basso, si svolgono rami di palma e d’alloro che abbracciano le armi di Firenze, di Ravenna e di Roma; della citta che al Poeta diede i natali, di quella che gli diede requie in vita e requie in morte, di quella che gli diede l’alto ideale politico. L’alloro e la palma mise dapprima, nel sepolcro di Dante, Bernardo Bembo. Del Bembo erano le imprese col motto ‘Virtus et Honor’. Ma egli le consacro all’Alighieri, ingiunse ‘Hic non cedo malis’. L’alloro del poeta e la palma (non simbolo di martirio ma di gloria) gettarono d’allora in poi i loro rami per tutto il mausoleo e per tutto il recinto. Germogliarono in ferro, in marmo, in bronzo, in argento, in oro. E ricingono ora […] la campana che […] ha […] un buon numero di Comuni d’Italia offerta (25).

Con il motto vittorioso, la simbologia ornamentale-vegetale dell’alloro e della palma, (a simboleggiare la gloria poetica e la gloria nazionale) si innesta la politicizzazione del culto dantesco (26). Ne reca un’eco la cronaca riportata dall’"Avvenire d’Italia", periodico cattolico pubblicato a Bologna, che riprende la cerimonia politica e religiosa del 14 settembre 1921, per celebrare la concordia tra l’anima cattolica e quella monarchica alla luce del "risorto" culto nazionale di Dante, stavolta tuttavia nel segno delle campane di San Francesco:

Ieri verso mezzodì, le campane del bel San Francesco, le campane fuse nel bronzo dei cannoni strappati al nemico, salutavano dall’alto del bellissimo campanile l’arrivo del Cardinal Legato. Sono le campane che la Gioventù Cattolica di Ravenna, aiutata dalle altre associazioni giovanili di tutta Italia, ha desiderato di offrire alla Chiesa di Dante. Ai giovani, ai giovani anonimi sparsi per tutto il territorio nazionale, si sono uniti i principi e regine: i Duchi di Genova e la Regina Margherita, facendo assurgere con queste partecipazioni cosi diverse, l’offerta votiva ad importanza, che trascende dal fatto della cronaca festiva di questi giorni, per inquadrarsi in un concorde unanime pensiero d’amore, in quello stesso pensiero che oggi raccoglie tutti gli italiani degni di tal nome, nel nome di Dante […]. Campane di S. Francesco, alto rombanti nel silenzio della piana romagnola, squillate a festa e a preghiera (27).

 

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Le «campane di S. Francesco»

 

Per iniziativa del Comitato Cattolico Dantesco ravennate furono, infatti, realizzate in occasione del Secentenario cinque campane (denominate, a partire dalla maggiore, con grande sfoggio di regalità onomastica e di spirito agiografico: Petrus, Maria, Benedictus, Margarita, Bona), da collocare nella torre della chiesa di S. Francesco (Fig. 3): l’onore della fusione spettò stavolta alla fonderia varesina di Angelo Bianchi & Figli, a cui fu commissionato che suonassero "in tono di Re b. grave" (28), per onorare, in particolare, il carattere sacro e solenne della chiesa che ospito i funerali ddel poeta.

 

Fig. 3. Le cinque campane per la chiesa di S. Francesco a Ravenna (dall’opuscolo Le campane di S. Francesco in Ravenna per il VI° centenario dantesco, Varese, Ind. Grafi ca A.P. Landi & C., 1921).

 

Le campane di S. Francesco, "cupe, austere, profonde" – campane di lutto, pensando alla biografi a dantesca – cosi riconoscibili dai ravennati per le loro qualità timbriche musicali antifonali, sembrano riportare al mondo tardo-antico, alle "voci di patriarchi", alle "voci di santi e angeli" delle rappresentazioni musive. Oltre a voler "costruire un concerto di cinque campane in pentacordo sulla base di Re bemolle maggiore" (29), che completasse il restauro e il rinnovamento della chiesa di S. Francesco, il Comitato Cattolico Dantesco forni alla ditta artigiana lombarda precise indicazioni su iscrizioni, figure e fregi da apporre sulle campane. Vi ricorrono i versi di Paradiso XXI, 121-123 ("In quel loco fu’ io Pier Damiano / e Pietro peccator fu’ nella casa / di Nostra Donna in sul Lito Adriano"), Paradiso XXIII, 136-139 ("Quivi triunfa, sotto l’alto Filio / di Dio e di Maria, di sua vittoria, / e con l’antico e col novo concilio / colui che tien le chiavi di tal gloria"), Paradiso XXIII, 88-89 ("Il nome del bel fi or, ch’io sempre invoco / e mane e sera"); i versi di Purgatorio XI, 95 ("ed ora ha Giotto il grido"); e, infi ne, i versi, rispettivamente conclusivi (12-13) e iniziali (1-2) della Prosopopea di Dante del Boccaccio: "Ravenna fummi albergo nel mio esiglio / ed Ella ha il corpo", e "Dante Alighieri son, Minerva oscura / d’intelligenza e d’arte", in onore, gli uni, dell’ultimo rifugio di Dante, gli altri del cifrario segreto del suo poema. Come per l’opera di Cambellotti, decorazioni, iscrizioni e dediche delle campane di S. Francesco sembrano rispecchiare il fine ideologico della committenza: vi sono riprodotte le figure di S. Pietro, della Vergine, di S. Francesco e di S. Domenico, assieme agli stemmi del papa e del re, a scene mondane e bibliche con angeli, santi, demoni, patriarchi (Figg. 4-5).

 

Fig. 4. Fregi e decorazioni per le campane di S. Francesco.

 

Fig. 5. Frontespizio dell’opuscolo Le campane di S. Francesco in Ravenna per il VI° centenario dantesco, Varese, Ind. Grafi ca A.P. Landi & C., 1921.

 

 

Mentre sulla campana maggiore compare un’iscrizione latina, composta dal prevosto varesino Enrico Bianchi:

QUAE QUOTIDIE

AERA

DANTE PLENDO DANTE DEFLENDO

ALTERNO CLAMBUN TINNITU

HENRICUS BIANCHI

VARISII ARTIFEX

TREPIDO IGNE

ANNO MCMXXI

DUXIT (30).

 

Il racconto della fusione, accompagnato dalla solennità del ricordo e dall’orgoglio municipale, complementare rispetto a quello epistolare della campana di Cambellotti, e consegnato all’opuscolo celebrativo pubblicato dai fonditori varesini:

La grande colata avvenne la mattina del 10 agosto alla presenza di alcuni RR. Sacerdoti e di altri pochi intimi, ed in cinque o sei minuti, dall’ampissimo forno, oltre sessanta quintali di bronzo fuso, scesero e rivestirono le forme preparate con scrupolosa attenzione. A fusione ultimata, gli operai si accinsero con febbrile impazienza allo sterro e alla ripulitura dei getti, e le nuove campane, egregiamente riuscite per fonicità, armonia, ed estetica, risposero degnamente all’avvenimento artistico che congiunse le onoranze a Dante col nome di Varese (31).

 

Gli stessi toni innografi ci ricorrono in occasione dell’inaugurazione ravennate del 1921, quando le campane di S. Francesco vennero esaltate come campane di festa e di preghiera, in aperta contrapposizione col ricordo delle esequie di Dante:

Il 14 settembre, anniversario della morte del divino Poeta, dalle campane martellanti a gloria nell’azzurrità del cielo ravennate, in vista del verde cupo delle pinete digradanti sul mare, in cospetto dell’immensità acquea dell’Amarissimo, e salita al Cielo la preghiera cristiana, che nel nome di Dante, i cattolici di tutto il mondo, e prima di tutto i cattolici italiani, hanno elevato a Dio. Dante è stato onorato nella Chiesa in cui piegò le ginocchia dinanzi all’Altissimo, e nella quale vennero recitate attorno alla sua salma le preghiere dei morti e della resurrezione. Campane di S. Francesco, alto rombanti nel silenzio della piana romagnola, squillate a feste ed a preghiera! (32)

Le decorazioni riprendono, oltre alle figure di santi, versetti danteschi commisti a versi biblici, altri monumenti ravennati celebrati da Dante, creando cosi un’intertestualità diffusa, una sorta di arabesco in bronzo dell’"ultimo rifugio di Dante". L’ufficialita della realizzazione è testimoniata anche dalla prova di collaudo, effettuata dal canonico Angelo Nasoni, Presidente della Commissione Diocesana per la Musica Sacra, inviato speciale del Comitato Dantesco presso la fonderia Bianchi:

 

L’esame delle cinque campane, sotto il rispetto fonico, mi ha dato la convinzione: a) che le medesime rappresentano scalarmente con precisione i suoni: Re bemolle, Mi bemolle, Fa nat[urale], Sol bemolle, La bemolle; b) che il suono di ciascuna campana è dolce, pastoso, ricco di vibrazioni e di armonici; segno del buon materiale adibito e di accurata fusione; c) che tra le dette campane sono esattamente osservati gli intervalli armonici, e pertanto esse producono suono gradito tanto sotto il rispetto melodico, quanto sotto il rispetto armonico. Sotto l’aspetto esterno e figurativo: a) le campane appariscono fuse senza difetto e con tutta regolarità; b) vi sono state apposte le numerose iscrizioni e figurazioni che sono state disegnate dal costruttore; c) che la Ditta ha aggiunto, con criterio artistico, altri fregi sia ad ornamento generale di ciascuna campana, sia a circoscrivere le numerose figure (33).

 

La ricerca del pathos, della rimembranza armonica, del suono grave, coincide pertanto con la poetica pascoliana di rievocazione del paesaggio sonoro della pineta:

 

I grandi pini col sussurro incessante ripeteranno al nuovo pellegrino il poema dell’esule; e quand’anche tutto ciò che Dante vide e pensò e cantò, fosse gia scomparso, l’ultima campana che ancora rimanesse su una torre, da Sant’Apollinare, l’unica ultima squilla, sonerebbe sulla sera, e inviterebbe quel solitario uomo dell’avvenire a piangere su tutto ciò che muore, che poi è sempre cosi bello cosi buono, cosi pieno d’incanto cosi pieno di rimpianto (34).

 

A ridosso della concezione della Commedia come poema sacro, basti soltanto ricordare come la “mirabile visione” dell’esegesi pascoliana, che parte dalla "divina foresta spessa e viva" di Matelda, si focalizzi proprio sul paesaggio sonoro rappresentato dai suoni naturali e dall’"ultima squilla" di Sant’Apollinare. Nel suono della campana si condensa il congedo dal giorno appena trascorso, l’itinerarium mentis in Deum che arriva al ricongiungimento con la luce che verrà (35).

Eppure, all’orecchio di Corrado Ricci quelle stesse campane di S. Francesco, cosi gravide di significati religiosi, sarebbero parse estranee alla zona dantesca a causa del loro "stridulo suono disarmonizzante", che si confondeva con le voci austere delle antiche torri di Ravenna, al punto da chiedersi: "chi suggerì, chi tollerò la morte di un’antica e profonda anima vocale per dar vita ad una bisbetica accolta di squille da villaggio lombardo?" (36). Quel "concerto da valle alpina" gli faceva, insomma, rimpiangere il "severo poderoso suono delle campane francescane, che forse rintoccarono quando i conventuali fecero l’ultima ricognizione delle ossa di Dante" (37): le precedenti campane della chiesa erano state, infatti, rimosse e fuse nel crogiuolo, (assieme ai resti di quelle recuperate dal conflitto bellico e alle armi in bronzo del nemico), per formare le cinque nuove, in aderenza al progetto di restauro di S. Francesco, che doveva presentarsi, nel 1921, anziché occultata dalle stratificazioni moderne, con i "suoi rozzi mattoni, rozze porte, rozze finestre; tutta una veste rozza come una tunica francescana, di cui serba anche il colore" (38).

Le campane di Dante si scoprono in tal modo eterodosse, investite, durante le celebrazioni del sesto centenario, da un rovesciamento semantico perché capaci di intonare significati differenti, a seconda del prevalere della memoria pubblica o privata, di quella letteraria o di quella religiosa.

 

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Le campane di guerra: Dante in grigioverde

 

Come si e visto, sotto la definizione di “campane dantesche” si raggruppano opere distinte, i cui significati – in linea con la nazionalizzazione dell’icona dantesca avviatasi nel periodo post-risorgimentale – si contaminano, oltre che con le strategie contingenti di legittimazione politica e culturale, con la perdurante memoria della Grande Guerra (39). Da questo punto di vista nei primi decenni del Novecento le campane sono tra i “monumenti danteschi” (di carta o meno, artefatti o manufatti, opere di ingegno e d’artigianato) che racchiudono i maggiori significati identitari, congiungendo la vittoria bellica al culto nazionale per gli eroi e i padri della patria, la sacralità della tradizione (letteraria e religiosa) alla celebrazione patriottica italiana (40).

La religione di guerra, con la sua lunga catena di lutti e memorie, investe le campane di Dante, mettendo in scena valori identitari, politici e culturali, congiungendo reminiscenze letterarie, artigianato e arte, luoghi e tempi lontani, processi anadiomenici (cioè di volta in volta che scompaiono e risorgono, che si spostano come si sposta il sapere storico). I monumenti diventano parte centrale del sistema di rappresentazione: i cannoni e le campane raccontano nel bronzo il sacrificio della guerra, i suoi orrori, le sue mitologie (Fig. 6).

 

Fig. 6. Campana di vittoria (cartolina).

Ma ad un simile celebrazione concorre anzitutto la lezione del testo, in cui si trovano iscritti quei valori simbolici e spirituali, di cui occorre tener conto per giudicare in modo non irrelato né parziale la microstoria delle campane dantesche ravennati. Già in Inferno XXII, 7-9, la campana alludeva non tanto allo strumento musicale idiofono, o al simbolo religioso, ma alla fiorentina Martinella ("quando con trombe, e quando con campane, / con tamburi e con cenni di castella, / e con cose nostrali e con istrane"), posta sopra i castelli di legno forniti di ruote, ovvero "sopra i carrocci o altri carri di guerra, […] che serviva per la trasmissione, a distanza, di ordini" (41). Invenzione bellica tardo-medievale, che aveva la funzione di radunare la fanteria sotto il rispettivo gonfalone e di guidare l’assalto, la campana era perciò strumento sonoro di un messaggio politico e identitario. Come s’e visto, sarà la squilla di Purgatorio VIII ad ammantarsi pienamente di una funzione civile, corrispondendo al suono che si espande dalle torri, dai campanili, dai palazzi comunali per regolamentare la vita delle comunità e non soltanto i comportamenti militari (42).

In Paradiso X, 139-144 ("Indi, come orologio che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perche l’ami, / che l’una parte e l’altra tira e urge, / tin tin sonando con si dolce nota, / che ’l ben disposto spirito d’amor turge") e Dante stesso a comprendere questa unicità di suono, accostando l’immagine delle anime fulgidissime dei beati che, accordando le loro voci, cantano il mistero della Trinita, con l’onomatopea tin tin, che fa riferimento al suono argentino, di nota netta, della campana dell’orologio. Evocando l’idea dell’orologio da torre, che scandisce, ad intervalli consonanti – secondo la tecnica del contrappunto – gli uffici religiosi e civili, Dante restituisce al lettore la polifonia celestiale, cioè l’eterna armonia, la "musica della sfere" (43). La campana in questo caso condensa l’idea di una fonosfera che si realizza, come quella paradisiaca, nella simultaneità perché è in grado di emettere fino ad una cinquantina di toni parziali, perfettamente udibili simultaneamente al tono principale, che le conferisce la nota fondamentale. La campana riesce, insomma, a fondere nello stesso suono diversi suoni, proprio come le voci dei beati, che per essere udibili a Dante devono essere artificiosamente scomposte, pur costituendo un’unica voce.

Mentre nelle Rime di Dante la “squilla” tematizza sia l’idea dell’ultima ora canonica ("S’io avessi le belle trecce prese / che fatte sono per me scudiscio e ferza / pigliandole anzi terza, / con esse passerei vespero e squille", CIII, 66-69); sia il rito apotropaico che doveva scacciare i temporali, a sottolineare la vacuità di ricorrere a ragione e volontà come armi per combattere amore: "Chi ragione o virtù contra gli sprieme / fa come que’ che ’n la tempesta sona, / credendo far cola dove si tona / esser le guerre de’ vapori sceme" (CXI, 5-8) (44). In quest’ultimo caso la campana, che spesso recava un nome popolare, assume un valore "centrifugo" (45), agendo da spirito ammonitore che allontana le forze maligne. Mentre nelle altre occorrenze indicate da Contini, essa produce un "suono centripeto" (che attira verso di sé e unifica la comunità), stabilendo un legame tra Dio e gli uomini, dettando un "calendario acustico" (46), fatto di note malinconiche, minacciose, festose, perfettamente fuse con i suoni della vita (canto degli uccelli, suoni delle acque, degli insetti e di animali), e del lavoro, con i rituali rurali e cittadini. Come hanno dimostrano i Soundscape Studies, a partire dagli anni Settanta, con le loro indagini rivolte all’ecologia acustica, le campane danno vita perciò ad una fonosfera metaforica proprio perché si giovano, come nessun altro suono prodotto dall’uomo, della distanza e dell’atmosfera. Da voce quasi scomparsa, tipica della "società cristiana del passato" (47), essa conserva un’"impronta sonora" (soundmark) corrispondente all’idea di un "suono comunitario" (48).

La campana dei Comuni d’Italia, mutuando l’immagine medievale dalla “squilla” di guerra – che incitava all’azione in nome dell’unita e della concordia – presentava un forte significato nazionalistico sin dalla sua genesi: forgiata dalla fusione di sei quintali di argento e bronzo del nemico, al pari della corona d’alloro saldata ai piedi del sepolcro di Dante (dono del municipio e delle città fiumane, "formata da tante foglie quante sono le provincie storiche del Regno e le città irredente") (49), e dell’ampolla delle terre irredente, realizzata con l’argento delle donne istriane. Di qui l’appellativo (comune anche all’ampolla di Trieste e alla lampada sepolcrale, che, voluta dalla Società Dantesca Italiana, arde ininterrottamente dal 13 settembre 1908), di campana votiva, risultato cioè di un’operazione di sacralizzazione, di trasferimento di un messaggio politico in una formula e ritualità religiosa. Allo stesso modo le campane di S. Francesco furono realizzate fondendo, assieme alle campane storiche precedenti, sette cannoni di bronzo impiegati nella Grande Guerra (provenienti dal deposito di artiglieria di Bologna e ceduti appositamente dal Governo) e – dato ancora più clamoroso – i "frammenti di campane tolti al nemico, sui quali si scorgevano chiaramente le cicatrici lasciate dai proiettili che le infransero" (50) (Fig. 7).

Fig. 7. Le campane di S. Francesco, ottenute dalla fusione dei frammenti delle campane requisite al nemico (dall’opuscolo Le campane di S. Francesco in Ravenna, cit.).

Durante la Prima Guerra Mondiale le campane vengono cosi investite di un’ufficialità rafforzata dagli apparati epigrafici, decorativi, celebrativi, divenendo il centro di insospettabili strategie di comunicazione: basti pensare agli inni patriottici La campana di S. Giusto (1917), La campana del Campidoglio (1919), Le campane della patria (1918), alla produzione letteraria (tra cui, per esempio, la silloge Campana sacra [1918] di Ugo Calosi), ai manufatti celebrativi in bilico tra funzione religiosa e funzione civile, come la campana dei Caduti “Maria Dolens” di Rovereto (1924) o la campana in memoria della canonizzazione di S. Francesco (1917) (Figg. 8-9).

 

Fig. 8. Le campane di San Giusto: inno patriottico (1914).

 

Fig. 9. La benedizione della campana “Maria Dolens” di Rovereto in onore dei caduti della Grande Guerra. Fotografi a, 1924.

 

Dalle terre irredente, battute dalla guerra e dalle retrovie dei nemici, provengono le complementari simbologie monumentali, da associare alle campane dantesche di Ravenna. Nella memorialistica della Grande Guerra si ritrovano, in particolare, due topiche ricorrenti e complementari: quella del campanile muto, dove le campane sono state rimosse (per fondere il loro bronzo in armi d’artiglieria pesante) o semplicemente nascoste, spezzando il ritmo naturale della vita delle comunità (51); e quella del campanile senza campane, simbolo della distruzione e della barbarie, di un atto altamente lesivo del sentimento religioso e identitario, tanto che i frammenti delle campane diventano tra le reliquie di guerra più ricercate (Fig. 10) (52).

 

Fig. 10. Vedette dell’esercito italiano sul campanile di Villesse (Gorizia). Fotografi a, 1916.

Come scriveva Antonio Baldini in Nostro purgatorio, a Udine "le campane rombando dal Duo l’Avemmaria fanno staccare qualche petalo delicato, che vien giù", quasi in contrapposizione ai "silenzi portentosi" della guerra, che "restituiscono alla natura l’illuminato sonno della preistoria, quando gli uomini uscivano poco dalle grotte per non cimentarsi con le foreste e la luce" (Fig. 11):

 

 

Fig. 11. La campana maggiore del duomo di Udine. Fotografi a, 1918.

 

Guerre come quelle d’oggi sono disumane forse anche per questo: perché tollerano che siano contraddette le leggi di signoria e di libertà che l’uomo ha sulla natura. Di questo silenzio guardingo, di questa confusa mortificazione pare che la terra, anche cosi lacerata, infatti, ne goda (53).

Tra le ritorsioni di guerra piu terribili (concentrate nell’ultimo anno di guerra), dalle conseguenze morali talora devastanti, vi furono proprio le "odiose requisizioni" delle campane, oltre che di derrate agricole, animali da lavoro e metalli: "già i paesi avevano veduto calare dalle celle degli svelti campanili di stile veneto le campane delle loro preghiere e dei loro morti […]. Dopo di allora le requisizioni si mutarono in rapine" (54) (Figg. 12-13).

 

Fig. 12. Sottrazioni e profanazioni di campane durante la Grande Guerra. Fotografi e, 1917-1918.

 

 

Fig. 13. Sottrazioni e profanazioni di campane durante la Grande Guerra. Fotografi e, 1917-1918.

 

Pur di proteggere la campana, strumento d’allarme e di difesa delle trincee, i soldati ricorsero a sostegni di fortuna, salvo esserne beffardamente privati dalle gerarchie militari superiori, come racconta il sottotenente Armando Lodolini nel suo diario di guerra postumo:

Elevai un artistico sostegno per una campana, che avevo fatto calare dal campanile della chiesa che è fuori del paese. Doveva servire per dare l’allarme. Aveva una voce cosi possente che, quando ne feci l’esperimento, non solo l’udirono le più lontane vedette, ma il nemico dal Tomeabru, che sparò un paio di cannonate. Ma pur di bearsi del caro, strano e dimenticato canto del bronzo i miei soldati avrebbero scampanato tutto il giorno. Dovetti aggiungere una severa consegna al corpo di guardia! Però un bel giorno venne un generale a visitarci. Vide la campana, lodò l’iniziativa, ne approvò l’uso. "Sicuro!… piuttosto che lasciarla sul campanile dove una cannonata la può distruggere!… Ed è veramente un’opera d’arte: io sono intenditore; guardi che finezza di incisioni … ah, un buon Seicento!… Senta, domani la manderò a prendere … Voglio tenermela per ricordo ". All’indomani una carretta portava via la ‘nostra’ campana. […] Rimase il sostegno, simile ad una forca: "Ebbene, ragazzi! C’impiccheremo Francesco Giuseppe se capiterà da queste parti!" (55).

La campana rappresenta, per contrapposizione, nello scenario di devastazione da "Sabba romantico, da porta dell’Inferno" della "terra scarnificata" (56) dalla guerra, il ritmo della vita comunitaria, il ritorno all’infanzia, ai riti tradizionali. Per cui, ad esempio, le campane mute di Campolongo, descritte nel Diario di un imboscato (1919) di Attilio Frescura, sono contrapposte al rombo del cannone:

Mentre il generale sognava, o contava i colpi, io ho curiosato nella cella campanaria dove le campane, mute, spiano gelose le glorie del cannone, il loro fratello di bronzo. E su una ho trovato un motto che mi e sembrato ammonisse il sogno e la visione gloriosa o il computo dei colpi in arrivo:

AB OMNI PECCATO

ET A MALA MORTE

LIBERA NOS DOMINE

Amen! (57).

 

Al pari delle campane dantesche ravennati, eloquenti tributi all’identità nazionale (58), anche la Granda di Arbe era divenuta, negli stessi anni, simbolo d’italianità e d’irredentismo:

 

C’e una campana che dovrà inevitabilmente, inesorabilmente squillare la sua italianità nelle acque del Carnaro abbandonate al nemico vinto – invincibile nel suo odio – ante e post-bellico –e la Granda di Arbe. Sul campanile del Duomo della città dogale […] che attende silenziosa cosi come D’Annunzio ordinava, dopo l’occupazione del 13 novembre di quei suoi Legionari nelle ore d’ansia e di fremito e attesa dell’attacco nemico. […] Anche la Granda rimanga silenziosa […]. Sonerà a stormo per la battaglia – sonerà a gloria per il sacrifizio (59).

 

Al tracollo militare dell’arcipelago del Carnaro ("sul Carnaro di Dante evochiamo la passione di Dante" (60)) corrispose il silenzio della campana, simbolo identitario italiano nell’arcipelago dalmata:

 

Arbe la fedele venne abbandonata il 10 gennaio al dominio dello straniero aborrito, e il vecchio volontario della Guardia cittadina che stava sempre vicino alla Granda perche aveva giurato di morire suonandola a gloria, ne fu allontanato. […] gli occhi fissi al Carnaro e alla Dalmazia, ricondurrà quel vecchio alla campana silenziosa che alfine sonerà per la battaglia – pel sagrifi cio.[…] Non potevano soffocare alla tua Granda la sonora anima latina ‘fatta d’oro, d’argento, d’amore’ (61).

 

Quella campana, che Battista d’Arbe "volle fondere con il miglior metallo per lasciare alla sua città nativa un ricordo dell’arte sua, un segno musicale del suo amore", una volta trafugata dalla cattedrale, rimase muta ("Che dice la campana di Arbe?") e piangente, come la rievocò D’Annunzio, conferendole la parola e cosi rappresentandola, come voce narrante, nel discorso Italia e vita, pronunciato il 24 ottobre 1919, in occasione dell’anniversario della battaglia del Piave:

 

Dice: "L’isola nostra è in un seno morto del Carnaro. Ci dimenticate, fratelli? Siamo pochi, superstiti dell’italianità percossa; pochi ma tenacissimi. Ci condannate, fratelli? La condanna è segnata nelle rovine che ingombrano la nostra città piccola dalla quadratura italica. La condanna è sospesa su i settecento Italiani, che furono settemila. Le case dei Barbari sorgono dalle nostre rovine, e ci sembra che alle loro pietre siano mescolate le ossa dei nostri padri e che il loro cemento sia stemprato col sangue della nostra piaga". La campana piange e dice: "Non ci dimenticate, non ci abbandonate, fratelli. Voi avete atteso e a voi sono giunti i messi della libertà. Noi abbiamo atteso, e nessuno è ancor giunto. […] Non ci dimenticate, fratelli. Non ci lasciate perire. Siamo anche noi gente latina, devota al nome latino. […] Che c’importa, se non siamo Italiani in terra d’Italia? Vogliamo insorgere, vogliamo combattere. Siamo con voi, siamo per voi. Ecco il nostro sangue. Non lo rifiutate. Prendetelo". Così dice la campana di Arbe, così dice la Granda: voce della sua gente. E gli altri tre campanili della città di San Cristoforo suonano a consiglio. E tutte le campane dell’arcipelago stanotte suonano a consiglio, anche quelle di Pago che è il nostro ponte verso Zara la Santa, il nostro ponte verso quella Dalmazia diletta che le armi d’Italia accolse inginocchiata su le sue rive veneziane (62).

 

Lo stesso destino di profanazione toccò alla campana dantesca di Gemona, addossata alla prima colonna di sinistra del Duomo, fusa nel 1423, che reca in rilievo, a caratteri gotici, la terzina dell’ultimo canto del Paradiso ("Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio"). Precipitata dalla torre cittadina il 29 gennaio 1918 dagli austriaci e portata via da un autocarro sino a Piovega nel Padovano, nei pressi di Piove di Sacco, fu restituita il 27 marzo successivo (63). Proprio il suo miracoloso ritorno a Gemona per l’intercessione nemica, assieme all’invocazione mariana contenuta nelle terzine dantesche, e ai soggetti religiosi che la adornano (64), le fece assumere un immediato carattere sacro, oltre che identitario (Fig. 14).

 

Fig. 14. Il ritorno delle campane superstiti a Gemona (tra cui la “campana di Dante”) il 12 giugno 1921. Fotografia.

 

La profanazione, toccata alle campane delle terre irredente, e restituita in modo esemplare dalla poesia Guerra! (1915) di Corrado Govoni:

Ecco il soqquadro la profanazione
Penetraron nel luogo santo.
Sono cadute le campane
Come il grappolo spiccato
Dal monello goloso con un sasso.
Ora possono servire da marmitte
E le corde a tirare i carriaggi
(65).

 

Allo stesso modo, nel discorso parlamentare del Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando, tenutosi il 23 febbraio 1918, a quattro mesi dalla disfatta di Caporetto, si ricorda, sulla base di un’informativa trasmessa dal vescovo di Vicenza, come la sottrazione delle campane avesse comportato lo spezzarsi dei legami comunitari:

 

Dal campanile sono state tolte le campane. E stato uno spettacolo doloroso, perché le campane furono fatte precipitare dal campanile e andarono in mille pezzi sotto gli occhi della popolazione. Qualcheduno, piangendo, raccoglie i pezzetti di bronzo e li tiene come una reliquia sacra […]. I rottami delle campane furono subito caricati in autocarri e avviati a Primolano. Si parla molto tra gli abitanti del paese di una controffensiva italiana per ricacciare gli austriaci (66).

 

Si può concludere questa rassegna sulle “squille” dantesche della Grande Guerra con la campana del Bargello, detta “Montanina”, che suonò nel secolo scorso in rare occasioni (legata com’era alla tradizione del “suonare a vituperio” in occasione di eventi luttuosi): nel 1918, in segno di giubilo, per annunciare la fine del conflitto; e nel 1921, per partecipare alle celebrazioni dantesche e salutare il passaggio del Milite Ignoto.

Sullo sfondo della monumentalizzazione novecentesca del poeta universale, le campane di Dante, da veri simboli identitari, convertono quindi in valori sonori, plastici e artistici un dantismo narrato e diffuso, capace di esprimersi persino nel silenzio (67). Enfatizzando il valore monumentale della “zona del silenzio”, come contenitore urbano di altre memorie, non meno urgenti e condivise di quelle legate all’anniversario, le campane dantesche di Ravenna, da segni eco-acustici complessi, sommano quindi significati religiosi e storici ossimorici (giubilo e lutto, festa civica e festa religiosa, morte e nascita, allarme e benedizione, solitudo e convivialità), rilanciando tuttavia ai posteri immagini coese del poeta d’Italia: insieme soldato e martire cristiano, padre della patria ed esule.

 

INDICE

N.1. Basti ricordare, tra i primi studi che riguardano i monumenti cittadini, quello di Giuseppe Gerola, direttore del Museo Nazionale di Ravenna, che nel 1918 pubblico l’opuscolo Il segreto di due campane (Ravenna, Angelini) e,  soprattutto, Corrado Ricci, La campana di Dante, in "Rassegna d’Arte", n. 11, novembre 1921, pp. 392-394 (dapprima pubblicato sul "Corriere di Romagna" del 18/02/1921); cfr. pure Id., Chiesa di S. Vitale in Ravenna: il campanile, le campane e l’orologio [s.l., s.n., 1914], in "Felix Ravenna", n. 14 (aprile-giugno 1914), pp. 579-585. Mentre sui significati culturali della campanologia (con approfondimenti sulle singole realtà regionali), oltre che su questioni di metodo e tecniche, si rimanda all’aggiornato volume collettaneo Del fondere campane. Dall’archeologia alla produzione. Quadri regionali per l’Italia settentrionale, a cura di S. Lusuardi Siena, E. Neri, Atti del Convegno (Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 23-25 febbraio 2006), Milano, All’Insegna del Giglio, 2007; nonche a G. Sanga, Campane e campanili, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 31-41.

N.2. Come si legge nel manifesto delle commemorazioni, dettato da Isidoro del Lungo, le tre città di Firenze, Ravenna e Roma, in nome di tutti i comuni italiani, furono volte "come figliuole sulle tomba del Padre, a raffermare la fede, disciplinare i voleri, agguerrire le forze, per l’avvenire giurato della Patria italiana". Cfr. «Il Mondo a Dante», fascicolo-ricordo del VI centenario della morte (1321-1921), compilato da R. De Rensis, [1921], p. 15.

N.3 Le campane di S. Francesco a loro volta non sono, peraltro, da confondere con la “campana delle Laudi”, offerta dai novemila Comuni d’Italia il 12 settembre 1926 ad Assisi, in occasione del sesto centenario della morte di S. Francesco, che riportava impresse nel decoro esterno alcune strofe del Cantico delle Creature.

N.4 Sulle celebrazioni dantesche ravennati si vedano L. Vernia, Le celebrazioni dantesche a Ravenna nel VI centenario della morte del poeta (settembre 1921), in "La Pie. Rassegna di Illustrazione  Romagnola", 1988, pp. 85-87; G. Bosi Maramotti, La memoria dantesca, in Storia illustrata di Ravenna, a cura di D. Bolognesi, vol. III: Tra Ottocento e Novecento, Milano, Nuova Editoriale Aiep, 1990, pp. 241-256; M. Domenicali, La nazionalizzazione delle celebrazioni dantesche a Ravenna tra Ottocento e Novecento, in "Ravenna. Studi e Ricerche", V, n. 2, 1998, pp. 199-215; F. Conti, 1921: il sesto centenario della morte di Dante, in Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’Ottocento, a cura di E. Querci, Torino, Allemandi, [2011], pp. 91-97; V. Fontana, Le celebrazioni dantesche a Ravenna nel 1921 e il concorso per la decorazione della chiesa di S. Francesco. Per una storia del Museo Dantesco, in "Bollettino Dantesco. Per il settimo centenario", n. 4, 2015, pp. 185-195; G. Di Paola, Una rivista cattolica per il Sesto Centenario della morte di Dante, in Lo stile puntuto: percorsi nella «Commedia» di Dante, Ravenna, Studium, [2005], pp. 147-151. Sullo specifico scenario romagnolo, cfr. P.P. D’Attorre, Politica e cultura a Ravenna tra le due guerre, in Cultura e vita civile a Ravenna (secoli XVI-XX), Imola, Galeati, 1981, pp. 251-253; M. Baioni, Rituali di provincia. Commemorazioni e feste civili a Ravenna (1861-1975), Ravenna, Longo, 2010, pp. 165-168.

N.5 Alcune fonti riportano il 31 ottobre 1921 quale data dei primi rintocchi della campana. Cfr. C. Ricci, La campana di Dante, cit., pp. 392-394. Il 14 settembre, durante il sesto centenario, assieme alla campana dei Comuni, vennero inaugurati la raccolta dei cimeli danteschi, la porta di bronzo, offerta dal comune di Roma, e i nuovi rivestimenti in marmo della tomba.

N.6 A. Annoni, Ravenna monumentale per il centenario di Dante, in "Emporium", vol. LIV, n. 321, 1921, p. 163. Ma si deve a Santi Muratori l’indagine più completa: cfr. La squilla che s’ode di lontano è l’Ave Maria della sera? (1932), in Id., Scritti danteschi, a cura di G. Bosi Maramotti, Ravenna, Longo, 1991, pp. 221-227. Nell’intervento su La tomba di Dante nel sesto centenario, lo studioso riporta la seguente epigrafe voluta da Guido Biagi, ideatore della campana dei Comuni: "A rievocare in perpetuo il ricordo del poeta nell’“ora che volge il desio ai naviganti”, questa squilla i Comuni d’Italia donarono a la Vestale del suo culto – Ravenna" (in "Arte Cristiana", anno IX, n. 9, 1921, p. 283). Completano la bibliografia specifica sull’argomento gli interventi di C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, Milano, Hoepli, 1921, p. 201, e di M. Valgimigli, La ‘squilla’ di Dante [1947], in Id., Il mantello di Cebète, a cura di R. Greggi, introd. di M. Biondi, Imola, La Mandragora, [1999], pp. 111-114; nonché quelli più datati di A. Lattes, La campana serale nei secoli XIII e XIV secondo gli statuti delle città italiane, in F. Novati, Indagini e postille dantesche, serie I, Bologna, Zanichelli, 1899, pp. 163-176; Id., La ‘squilla di lontano’ (Dante, Purg. VIII, 5) è quella dell’Ave Maria?,, ivi, pp. 139-150.

N.7 Per un inquadramento generale, cfr. Giovanni C.F. Villa, L’identità scolpita: appunti per la monumentalistica dantesca, in Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’Ottocento, cit., pp. 135-147.

N.8 La campana dei Comuni d’Italia offerta a Ravenna squillò per gl’Italiani d’America, toccata dal Delegato del “Carroccio”, in "Il Carroccio. Rivista di coltura, propaganda e difesa italiana in America", vol. 14, 1921, pp. 394-396: 395.

N.9 "La parola usata per descrivere la campana che chiede ai suoi lettori di immaginare, “squilla”, veniva impiegata per riferirsi alla campana usata per richiamare i fedeli alle funzioni religiose (Durand, Rationale, IV, X-XI). Mentre il pellegrino procede nel tempo lineare e nello spazio, il suono lontano della campana evocata da Dante – la campana che richiama i fedeli per il servizio serale della compieta – suggerisce familiarità e ripetizione": cfr. M. Treherne, La «Commedia» di Dante e l’immaginario liturgico, in Preghiera e liturgia nella Commedia, Atti del Convegno Internazionale di Studi, a cura di G. Ledda, Ravenna, Longo, 2013, pp. 11-30.

N.10 C. Ricci, La campana di Dante

N.11 La campana dei Comuni d’Italia offerta a Ravenna, cit., p. 395.

N.12 Sull’idea della Commedia come libro mariano, cfr. B. Martinelli, Dante e il nome di Maria, in Etica e teologia nella «Commedia» di Dante, , a cura di E. Ardissino, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 85-113. L’uso della campana dell’Ave Maria fu introdotto nel 1318 da papa Giovanni XXII.

N.13 S. Muratori, La squilla che s’ode di lontano, cit., pp. 226-227. La campana di S. Vitale, modellata dal maestro Luca da Venezia (lo stesso che realizzo la "squilla di pubblico ordine" a Guido Novello) e d’altronde intrisa di memorie dantesche e di memorie imperiali: cfr. P.D. Pasolini Dall’Onda, Dante a Ravenna, Milano, Sansoni, 1913, p. 16.

N.14 S. Muratori, La squilla che s’ode di lontano, cit., p. 227. Salvo ritrovare un madornale errore epigrafico proprio nella testa della campana, dove invece di “squilla” compare “sqilla” senza ‘u’: "non parrebbe credibile, se di errata fabrilia cconsolidati nel bronzo o nel marmo per epigrafi anche solennissime non ce ne fossero migliaia" (ivi, p. 225).

N 15 G. Bilancioni, A buon cantor buon citarista. Rilievi di un otologo sul suono e sulla voce nell’opera di Dante, Roma, A.F. Formiggini, 1932, pp. 130-131: "solo nel pio suono di una squilla – come fara poi Schiller – trova l’accento adatto e suggestivo a rendere lo stato d’animo appassionato. Un soffio di lirica gentile, un’onda di poesia e l’eco dei più soavi canti uditi da fanciullo e impressi perennemente nell’animo, i ritmi e le melodie di lontane leggende, una fiamma di passione irrompente, la gioia, il dolore, la fede nella più umana espressione: ecco le immagini destate da quel suono, mentre il silenzio si distende e la terra natale appare divina ai nostri occhi"

N 16 E. Donadoni, Il canto VIII del Purgatorio letto… nella sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, Sansoni, [1932], p. 7: "L’esilio ha perduto la sua asperità, universalizzandosi o sublimandosi in quelle due figurazioni di sperduti nel mare e sulla terra, con alle spalle la patria dolce e scomparsa e davanti l’ignoto e il terrore, nella immagine eternamente significativa del sole che cade, del giorno che muore: figurazioni indefinite, che, per la loro indefinitezza medesima, vengono a significare assai più che non dicano; e ci parlano dell’uomo irrequieto ed effimero" (p. 16).

N.17 C. Ricci, La campana di Dante, cit., p. 394.

N.18 Cfr. C. Sini, Dante. Il suono dell’invisibile, Milano, Et Al. Edizioni, 2013, pp. 24 e sgg.

N.19 C. Ricci, La campana di Dante, cit., p. 392.

N.20 A. Bartolini, Dante e Ravenna, Roma, Tip. L. Ricca, 1914, pp. 9-10.

N.21 C. Ricci, La campana di Dante, , cit., p. 393.

N.22 Lettera di Duilio Cambellotti a Maria Capobianco, (Roma, 30 agosto 1921) Cam., 1, 2, 3: Corrispondenza familiare, Archivio Cambellotti: Archivio del Novecento, Mart (Rovereto). Il dantismo del Cambellotti non risale tuttavia alla “campana votiva” per il sesto centenario: prese slancio, come e noto, con le sue illustrazioni alla Divina Commedia per l’edizione Alinari (1901), e con il suo impegno pedagogico nelle scuole rurali dell’Agro Pontino, quando, a partire dal 1900, assieme a Giovanni Cena e Alessandro Marcucci, organizzo un ciclo di letture dantesche per il popolo, illustrandone gli opuscoli in grandi disegni a carboncino. Quest’impegno pedagogico e un primo esempio di “arte sociale”, destinato a proseguire nelle illustrazioni di libri per ragazzi e, soprattutto, nelle numerose opere di arte pubblica realizzate nell’Agro Pontino.

N.23 Lettera di Duilio Cambellotti a Maria Capobianco, s.d. [ma settembre 1921], ivi.

N.24 Cfr. Cam. 6. 1. 29: Familiari – Valentina Mori. La campana dantesca e i pupi [1921], Archivio Cambellotti: Archivio del Novecento, Mart (Rovereto): fotografi e della campana in bronzo con decorazioni disegnate da Duilio Cambellotti per la tomba di Dante a Ravenna. Si ringraziano Federico Zanoner e Carlo Prosser, responsabili dei Fondi Storici, per la collaborazione prestata nella consultazione archivistica e nell’acquisizione dei materiali.

N.25 C. Ricci, La campana di Dante, cit., p. 394.

N. 26 Sulla nazionalizzazione del culto dantesco durante l’età fascista, cfr. S. Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in "The Italianist", XVI, 1996, pp. 117-142; L. Scorrano, Il Dante ‘fascista’. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001; S. Urso, L’aquila imperiale e il veltro dantesco. Il fascismo come orizzonte messianico, universalista e cattolico, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), a cura di D. Menozzi e R. Moro, Brescia, Morcelliana, 2004, pp. 247-274; M. Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale del Novecento, Firenze, C, Firenze, Cesati, 2015.

N 27 A. Pozzi, L’apoteosi di Dante poeta italiano e cattolico celebrata dal Cardinale Legato nel “Bel S. Francesco” di Ravenna. Campane, in "L’Avvenire d’Italia", 14 settembre 1921, p. 2. Un precedente reportage del medesimo inviato del giornale, Arrigo Pozzi (Ravenna inizia la celebrazione del Centenario di Dante nella ritrovata concordia di tutti i suoi uomini, in "L’Avvenire d’Italia", 11 settembre 1921, p. 3), insisteva sulle solenni celebrazioni dantesche, viste come esaltazione in morte e in vita del poeta: ai lenti argentini ritocchi della campana offerta dai Comuni italiani alla tomba di Dante hanno la notte scorsa riempita della loro eco la veneziana Piazza maggiore. Non “era gia l’ora che volge il desio”, la nostalgica ora serotina dell’Ave Maria che da Dante a Carducci ha ispirato i più soavi accenti alla poesia della preghiera cristiana; non era l’ora fissata per il suo quotidiano richiamo dell’imperituro ed affettuoso ricordo, ma quella voce che si levava alta e squillante fra le tenebre della notte, ridestando nella “Città del Paradiso” l’eco del canto del poeta e tutta una folla di ricordi, parve nella sua intima significazione come il primo saluto della città silente al poeta, che dorme da seicento anni il suo sonno mortale fra le vecchie mura gloriose"..

N.28 Le campane di S. Francesco in Ravenna per il VI° centenario dantesco// MCCCXXIMCMXXI, Varese, Ind. Grafi ca A.P. Landi & C., [1921], p. 10.

N.29  Ivi, p. 20.

N.30 Ivi, p. 10.

N.31 Ivi, p. 18.

N.32 Ibid. Sulla "Civiltà Cattolica" (anno 72, n. 9, 1921, p. 81) si trova la notizia dell’inaugurazione delle campane di S. Francesco, volute dalla Gioventù cattolica della città e da altre associazioni giovanili italiane, avvenuta nel pomeriggio del 15 settembre, quando la "folla di pellegrini accorsi non dall’Italia solamente, si stringeva alle porte della chiesa di S. Francesco". Mentre nella cronaca dell’omaggio dei francescani, avvenuto il 15 settembre nella medesima chiesa, spicca la polemica inerente la festa civile: "il Cardinale Legato, che ha deplorato che si fosse dimenticato da tutti di porre la Croce sulla fronte del poeta. Indi i Terziari si son recati alla tomba spargendovi le rose di Assisi", cfr. «Il Mondo a Dante», cit., p. 17.

N.33 Il testo del collaudo, inviato a monsignor Andrea Casati, riporta la data del 24 agosto 1921. Nell’opuscolo e seguito dagli estratti a stampa dell’inaugurazione delle campane.

N.34 G. Pascoli, La mirabile visione. Abbozzo d’una storia della Divina Commedia, Bologna, Zanichelli, 1923 [1902], pp. XXI-XXII.

N.35 Sull’importanza del mondo percettivo per la comprensione del viaggio dantesco, cfr. il capitolo Per una grammatica dei sensi: prossemica, suoni, colori (Purg. XXXI), in G. Oliva, Per altre dimore. Forme di rappresentazione e sensibilità medievale in Dante, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 76-99; 84-86.

N.36 C. Ricci, La campana di Dante, cit., p. 393. Una dissonanza notata nei termini di rottura di un’armonia della zona dantesca: "Ma tanto raccoglimento, tanta poesia cessa allorché dalla vetta della torre di S. Francesco intervenne il nuovo importuno gridio" (ibid.).

N.37 Ivi, p. 392.

N.38 Ibid.

N.39 Basti pensare alla grande campana dei Caduti “Maria Dolens” a Rovereto, realizzata nel 1924 col bronzo dei cannoni offerti dalle nazioni partecipanti al primo conflitto bellico, e collocata nei pressi dell’Ossario di Casteldante.

N.40 Sino all’identificazione di Dante con il soldato della Grande Guerra, che offre una lettura ideologica ed escatologica del sacrificio. Al centro di questa religiosità civile che tocca le fonti dantesche si trova il culto della patria, che secolarizza l’idea cristiana della vita eterna, trasferendola nella nazione: «Non è una contaminazione rettorica quindi questa fusione dei due ricordi, il lontano del 1321, il recente della Piave difesa dai fanciulli, perché mai l’Italia fu tanto forse degna del suo poeta del dolore e dell’amore, del Paradiso sperato e dell’Inferno vinto, come in questa ora della storia coi suoi 500.000 morti che ànno suscitato, si, forse, soltanto l’ingratitudine dei contemporanei, ma otterranno (lo giuro) la venerazione dei secoli venturi!», cfr. V. Cappa, Dante e l’anima italiana… conferenze dette nel Teatro Argentina in Roma il 23 giugno 1921, Forlì, Cooperativa Editrice Sindacale fra i Maestri d’Italia, [1921], p. 51. Si tratta della dimensione religiosa del nazionalismo, per cui la «morte del soldato assume una funzione consolatrice soprattutto nel momento in cui promette una memoria eterna»: cfr. O. Janz, Monumenti di carta. Le pubblicazioni in memoria dei caduti della prima guerra mondiale, in Non omnis moriar. Gli opuscoli del necrologio per i caduti italiani nella Grande Guerra. bibliografi a analitica, a cura di F. Dolci e O. Janz, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, p. 34. Proprio nel corso delle celebrazioni dantesche fiorentine del 1921 venne inaugurata a Campaldino la colonna commemorativa a Dante soldato, offerta dall’Esercito e dalla Marina Italiana e realizzata dall’architetto senese Agenore Socini, che riporta una targa con incisi i vv. 4 e 5 di Inferno XXII.

N.41 R. Negri, s.v. “campana”, in Enciclopedia Dantesca, II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1970, pp. 710-713. Tanto che la sottrazione delle campane durante le azioni belliche e il loro reimpiego con nuovi significati simbolici e politici e prassi documentata lungo tutto il medioevo e l’età moderna: la stessa “Martinella” fu prelevata dai Fiorentini a Montaperti, mentre la “Montanina”, che si trova nel Bargello, deve il suo nome al Montale, castello nei pressi di Pistoia, occupato dai Fiorentini.

N.42 M.A. Caponigro, s.v. “squilla”, Enciclopedia Dantesca, V, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1976, pp. 403-404. Va ricordato che l’uso delle campane venne ritualizzato nel IX secolo, mentre nel Medioevo si iniziarono a scrivere su di esse parole di dedica, di scongiuro, di preghiera. A partire dal XIV secolo e per tutto il Rinascimento prevalse invece l’uso di applicare plaquettes con decorazioni (immagini, sigilli, stemmi), a rendere ancora più una funzione sacrale e apotropaica, di protezione e difesa delle comunità.

N.43 Sul paesaggio sonoro dantesco, cfr. F. Ciabattoni, Dante’s Journey to Polyphony, Toronto, Toronto University Press, 2010, pp. 98-99; A. Fera, Paesaggi sonori: il viaggio musicale di Dante nell’oltretomba [http://www.academia.edu/4490961/paesaggi_sonori_il_viaggio_musicale_di_Dante_nelloltretomba ] ultima visita: 25 maggio 2016.

N.44 Cfr. D. Alighieri, Rime, in La Vita nuova e le Rime, a cura di A. Battistini, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 417 e 461.

N.45 R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro (tit. or. The tuning of the world, 1977), Milano, Unicopli, 1985, p. 82.

N.46 Ivi, p. 83.

N.47 M. Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Torino, Einaudi, 2008, p. 3.

N.48 R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, cit., p. 22. Cui si somma il valore di rito di benedizione, di segno di allarme, che non coincide con l’esclusivo "bruit ancestral": "la cloche releve  d’une histoire et s’inscrit aussi dans une territoire" (cfr. J.M. Fritz, La cloche et la lyre. Pour une poétique médiévale du paysage sonore, Geneve, Droz, 2011, p. 86-88).

N.49  «Il Mondo a Dante», cit., p. 36.

N.50 Le campane di S. Francesco in Ravenna, cit., p. 12.

N.51 Circa 10.000 furono le campane asportate nei territori italiani occupati. Per un censimento di questi danni di guerra, cfr. L’opera di soccorso per le chiese rovinate dalla guerra, in "Arte cristiana", VII, 1919, 1, pp. 15-16; VII, 2, pp. 33-34; Atti e documenti dell’Opera di Soccorso per le chiese rovinate dalla guerra, ivi, VIII, 1920, pp. 73-87; L’opera di soccorso 1921, ivi, IX, 1921, pp. 26-31; S. Weber, Spogliazione delle vecchie campane e la refusione delle nuove, in "Studi Trentini di Scienze Storiche", n. 2, fasc. 2, 1921, pp. 149-152.

N.52 Ne e esempio il "frammento della campana di Vertoiba in Campisanti", su base di marmo, che reca la dedica di "Giustino Sinigaglia al suo Comandante", a ricordo dei cruenti combattimenti, svoltisi tra l’agosto del 1916 e quello del 1917, nella località slovena. Cfr. D’Annunzio soldato, Catalogo della mostra a cura di G. Bruno Guerri, L. Faverzini, Modena, Artestampa, [2014], pp. 150-151.

N.53 A. Baldini, Nostro purgatorio. Fatti personali del tempo della guerra italiana 1915-1917, a cura di C. Donati, [Trento], Editrice Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, [1996], p. 133.

N.54 A. Frescura, Diario di un imboscato, Vicenza, Galla Editore, 1919, p. 510.

N.55 A. Lodolini, Quattro anni senza Dio. Un mazziniano dalle trincee del Carso allo Stato Maggiore (1915-1918), pref. di L.E. Longo, introd. e note di E. Lodolini, vol. II: Le Giudicarie, il Piave, la Valsugana, Udine, Gaspari Editore, 2004, p. 16.

N.56 F. De Roberto, La paura e altri racconti della Grande Guerra, Roma, e/o, 2014.

N.57 A. Frescura, Diario di un imboscato, cit., p. 163.

N.58 Cfr. A. De Biasi, La nazione di Dante, in "Il Carroccio. The Italian Review: rivista mensile di coltura, propaganda e difesa italiana di America", 1921, p. 265: "E se la campana d’argento che avrà Ravenna, dovrà squillare ogni sera all’ora che volge il disio la gloria del macro Poeta, e dovrà portare nella figurazione grafica gl’emblemi delle città italiche, l’artista trovi un segno di bellezza che ci ritragga la devozione nostra".

N.59 L. Negrelli, La ‘Granda d’Arbe’, cit., p. 140.

N.60 G. D’Annunzio, Il pugnale votivo [1 gennaio - 15 giugno 1920], rist. in Id., Il pugnale votivo di Gabriele D’Annunzio. Orazioni e messaggi fi umani, 1921-1931, Trieste, Hammerle, 2002, p. 127.

N.61 Ibid.

N.62 Il discorso è tratto da G. D’Annunzio, L’urna inesausta, in Id., Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1012-1013.

N.63 Cfr. P. Picul, La cjampane di Dante, Udine, Stamp[eria] A.G.F. 1966, p. 7. Che la campana dantesca di Gemona non sia la sola ad aver assunto una forte idealità nazionale e patriottica, nel Friuli Venezia Giulia, lo dimostra anche la vicenda delle campane del Duomo di Udine, tolte dagli Austriaci durante l’invasione, e riportate a festa durante la liberazione dall’occupazione straniera.

N.64 Tra cui l’agnello, il leone di S. Marco, il bue, l’aquila di S. Giovanni, Cristo, riportati nel nastro che circonda la campana.

N.65 C. Govoni, Guerra! (da L’inaugurazione della primavera, 1915), ora in Id., Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani della Prima guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa, pref. di M. Isnenghi, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 100.

N.66 V.E. Orlando, Discorsi parlamentari pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, vol. IV, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 1965, p. 1345. Se ne trova conferma, tra gli altri, nella Statistica delle campane asportate dalle provincie venete dai germanici e dagli austroungarici / Opera di soccorso per le chiese rovinate dalla guerra, Venezia, Tip. San Marco, 1919; e nell’articolo di G. Chini, Ruberie austriache a Rovereto: i ladri di campane, Forli, Valbonesi, [1920].

N.67 Cfr. G. Sanga, Campane e campanili, cit., pp. 34, 40-41.

 

 

 

 

 

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Bibliografia

BBib-ST-000 - Testo di Ing. Arch. Michele Cuzzoni

BiB-ST-822 - Monografia di Rossella Bonfatti in «Bollettino dantesco», numero 5, settembre 2016, Giorgio Pozzi Editore

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