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 Archeologia fusoria

AREA II - ARCHIVIO STORICO (ARS)

Cap. ARS-C01 - Archeometallurgia - Pag. ARS-C01.15

Gli argomenti trattati sono stati inseriti da Ing. Arch. Michele Cuzzoni nel 2011 - © Copyright 2007- 2024 - e sono desunti dalla documentazione indicata in Bibliografia a fondo pagina


 

De Campanis Fundendis: Considerazioni di metodo

 

INDICE:

 

A proposito del libro "De Campanis Fundendis. La produzione di campane tra fonti scritte ed evidenze archeologiche"; Considerazioni di metodo.

Monografia di Tiziano Mannoni [*]

 

Quello delle campane è un argomento affascinante, che mette allegria, forse per l'associazione che ne facciamo con le feste, o la vita comunitaria delle campagne, ma è anche molto attraente come lo ha trattato Elisabetta Neri in questo libro pubblicato dall'Editrice dell'Università Cattolica "Vita e Pensiero" [1].

Personalmente le campane mi ricordano l'adolescenza, quando in un paesino della Lunigiana, durante la guerra, andavamo tutte le mattine, presto, a suonare per la messa "il doppio" (la piccola e la media sciolte, fatte ruotare tirando le funi); ma i loro rintocchi erano anche i segni che, con la posizione del sole, scandivano il tempo, come il mezzogiorno e il vespro, a chi lavorava i campi lontano dal paese; oppure chiamavano tutti a spegnere un incendio, agendo a ritmo svelto sul batacchio della campana grande. Le campane mi evocavano ancora il vero campanaro che suonava a festa, alternando motivi spesso nuovi, ottenuti con le mani sui batacchi della piccola e della media, ai suoni più forti della grande che veniva trattenuta e fatta ruotare a grande slancio con la fune.

Tornando al presente libro, ricordo che avevo capito le buone intenzioni della Neri, già da quando mi era stato chiesto di seguire alcuni aspetti dell'archeologia della produzione della sua tesi di laurea; mi sembrava già molto che avesse, in seguito, pubblicato un considerevole articolo sulle campane in "Archeologia Medievale" [2]. E' assai raro infatti che un neolaureato, dopo questi passi, voglia e riesca ancora approfondire e completare lo studio, fino a produrre un'opera monografica e pluridisciplinare, che è in grado di costituire per molto tempo un caposaldo, dove si può trovare, trattato in modo critico e neopropositivo, tutto ciò che si può allo stato presente sapere e dire; sarebbe auspicabile che ciò avvenisse in molti altri campi.

Il libro si apre con una introduzione di Silvia Lusuardi Siena che, come sa bene chi ha lavorato con lei, non è solo una docente, ma possiede anche una speciale maestria nell'individuare i problemi messi in luce dalle ricerche archeologiche, nel non fidarsi soltanto di quello che già si sa e nel cercare le vie e gli strumenti necessari per continuare la ricerca; metodologia che ha certamente influito sul presente lavoro.

Le sei parti in cui si divide il testo della Neri seguono una logica ben precisa: una rassegna di apertura su tutto ciò che riguarda le campane al di fuori dei metodi della loro produzione, per capirne la comparsa, la funzione e la loro evoluzione; le principali fonti scritte che parlano abbastanza dettagliatamente della produzione, con i relativi testi; la discussione critica delle differenze tecnologiche esistenti tra le diverse fonti; le evidenze archeologiche della produzione confrontate con quelle delle fonti stesse; i metodi di schedatura degli indicatori archeologici, con gli esempi dei casi più interessanti; una sintesi dialogata che mette in rapporto le informazioni provenienti dai vari tipi di fonte per concludere con quello che si può considerare oggettivamente lo stato attuale delle conoscenze.

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Nel primo capitolo si parla prima di tutto delle campane come strumenti di telecomunicazione, che non sono state inventate dal nulla, ma costituiscono un'evoluzione culturale di qualcosa di più semplice che già esisteva, come i messaggi interni delle terme romane, e poi dei monasteri, ottenuti con la percussione di oggetti metallici. Per la cultura materiale le preesistenze, a volte anche con finalità differenti, sono normali in qualunque settore della produzione: le invenzioni nel senso assoluto sono delle astrazioni idealistiche, anche se spesso chi crede di farle non se ne rende conto.

La Neri discute poi come la potenza, il timbro e la nota musicale dipendono dalla lega metallica impiegata, dalla forma e dalle dimensioni della campana, secondo formule geometriche ben precise. Basta d'altra parte ascoltare e osservare le campanelle di varie dimensioni appese al collo degli animali al pascolo per rendersi conto della varietà dei suoni; esse sono o di bronzo fuso, o di lamiera di ferro acciaioso imbutita a caldo e con gli angoli uniti a coppie da chiodi ribattuti. Non a caso gli strumenti rintracciati dalla Neri, nella sua classificazione di tutte le forme di campane vere e proprie, erano di questi due tipi.

Il problema era quello che, per aumentare il raggio di azione delle comunicazioni che partivano dalle chiese, era necessario aumentare sempre più le dimensioni delle campane e collocarle più in alto, in modo che le onde sonore emesse son incontrassero ostacoli, o venissero assorbite dalla vegetazione che ricopriva i suoli circostanti. Per la produzione bisognava passare da un artigianato che comprendeva gli ornamenti ed altri oggetti metallici personali, ad uno che poteva in qualche modo ispirarsi alla statuaria in bronzo degli antichi.

La Neri affronta a questo punto l'origine dei campanili: quelli a vela non possono essere per ragioni statiche troppo alti, ma, anche se bassi, non resistono alle spinte orizzontali prodotte dall'oscillazione di campane pesanti. Solo i campanili a torre presentano una struttura quadrata in grado di scaricare verso la base e in tutte le direzioni anche spinte orizzontali elevate. Anche tali strutture, tuttavia, non sono state inventate ex novo perché negli edifici religiosi del Mediterraneo orientale le torri esistevano già prima dell'introduzione delle campane e, dopo che le torri sono state usate in Occidente come campanili, le campane sono state introdotte anche in Oriente.

Un altro interessante argomento trattato dalla Neri è costituito dal fatto che nella prassi della religione cristiana la campana è sempre stata considerata un oggetto sacro, che viene ritualmente benedetto e battezzato prima di essere messo in opera, e deve essere prodotto in un terreno consacrato, come d'altra parte confermano i numerosi ritrovamenti archeologici. Si è spesso pensato che l'attività itinerante dei produttori di campane fosse dovuta anche alle difficoltà e ai rischi del loro trasporto sulle mulattiere medievali; bisogna però ammettere che per le stesse chiese e sulle stesse strade venivano trasportati, con slitte trainate da buoi [3], architravi e colonne assai più pesanti, così come prodotte in posto si trovano anche campane piccole. Non bisogna dimenticare che l'homo faber prescientifico arrivava a risolvere i problemi tecnici con un saper fare sperimentale, e quindi razionale, ma di tali soluzioni conosceva solo gli effetti e non le cause, dovute a leggi naturali allora sconosciute e che egli attribuiva invece, fin dalla preistoria, a poteri soprannaturali.  Non deve meravigliare perciò che chi sapeva mettere in pratica tutte le regole matematiche  e metallurgiche, apprese per ottenere una precisa nota musicale molto potente, attribuisse però la buona riuscita del suo sapere al produrre in un terreno consacrato; così come mia nonna, che faceva un ottimo pane tutte le settimane secondo le regole apprese da sua madre, diceva che non lievitava e non cuoceva bene se non lo incideva con un segno di croce.

Per avvicinarsi sempre di più ai problemi della produzione, la Neri riporta come siano anche documentati nel medioevo impianti produttivi stabili in terreni consacrati, e come fosse possibile che sia i campanari stabili, sia quelli itineranti, in base alla "bottega" o all'epoca in cui avevano imparato, impiegassero processi produttivi in grado di ottenere i risultati richiesti in modi differenti, che però non alteravano, ovviamente, le caratteristiche invariabili dei materiali e dei processi fisici. Questo costituisce il principale problema per le interpretazioni dei dati archeologici, specialmente se si tiene conto che essi sono sempre parziali: si sono conservate prevalentemente le basi degli impianti fissi scavati nel suolo, dove a volte rimaneva intrappolata anche qualche parte dell'elevato che normalmente andava invece disperso o completamente perduto; i residui metallici, la eventuale cera, o suo sotituto e tutti gli strumenti mobili, invece, venivano normalmente recuperati dai fonditori. Ricordo bene, a tale proposito, come in quello che penso sia stato il primo scavo sistematico in Italia di un impianto per la produzione di una campana, quello cioè di Sant'Andrea di Sarzana [4], capimmo abbastanza presto che ci trovavamo di fronte a un tale tipo di impianto, ma quando si cercò di ricostruire il ciclo produttivo molte furono le discussioni e poche le certezze, senza con ciò voler togliere nulla al valore della pubblicazione di Fernando Bonora.

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Capitolo II

 

Proprio per questo la Neri propone, nel secondo capitolo del libro, di vedere se è possibile usare come fonti archeologiche anche quelle scritte, senza tuttavia prendere in esame quelle indirettamente narrative dei ricettari e dei taccuini personali, che tengono più conto dei materiali o di singoli particolari, ma piuttosto deitrattati che intendono descrivere l'intero processo produttivo. Quelli esistenti sono tre: il De Campanis Fundendis di Teofilo, testo oggi ritenuto del XII secolo e del cui autore si hanno notizie contrastanti; alcuni libri della Pirothecnia del XVI secolo di Vannoccio Biringuccio, personalità proveniente da una ricca famiglia senese e che visitò diversi paesi per diventare un "pratico" di metallurgia; i testi e le tavole illustrative riguardanti la produzione delle campane tratti dall'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert. Del primo e del secondo vengono riportati per intero i testi originali, corredati di disegni che cercano di illustrare in ogni parte i loro contenuti: di Teofilo viene inoltre pubblicata per la prima volta una traduzione in italiano che tiene conto della problematica produttiva [5], e che evita di tradurre, come è avvenuto a lungo, l'ottima traduzione inglese di Dodwell; di Biringuccio sono stati proposti chiarimenti del non sempre lineare italiano cinquecentesco; di Diderot e D'Alambert sono state riportate le tavole originali e la traduzione in italiano dei testi. Emerge comunque dalla presentazione degli autori che nessuno di essi si può ritenere un artigiano con l'intenzione di insegnare ad altri il suo saper fare con un'opera scritta, ma piuttosto un intellettuale che vuole valorizzare le capacità di una "arte"; lo stesso termine "pratico" indica una persona capace di organizzare una produzione, non facendo mancare nulla di ciò che serve ai "maestri dell'arte". Il Della Fratta [6], per esempio, di poco a lui posteriore, dice di Biringuccio che non eseguiva lavori per imparare e non poteva quindi accorgersi quando le informazioni orali che riceveva non erano veritiere.

Si può aggiungere che questo fenomeno è generale per tutto ciò che riguarda il saper fare, ed è anche spiegabile: è praticamente impossibile insegnare con la scrittura trasformazioni della materia di cui non si conoscono le cause, ma solo gli effetti, e quindi ciò che è conoscenza soggetta ai sensi e non all'analisi simbolica della scrittura. Platone fa dire a Socrate, nel dialogo con Fedro dove si esalta l'importanza della parola, che in un solo campo la parola da sola non ha nessun potere: è illudersi di insegnare con essa un mestiere.

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Nel terzo capitolo la Neri sviluppa il confronto tra i quattro metodi produttivi dedotti dalle fonti acritte (uno di Teofilo e tre di Biringuccio), cercando di giustificare criticamente, anche con l'aiuto di una utile tabella comparativa, la validità tecnologica di ognuno di essi, nonostante le differenze. In un primo tempo si pensava, in base alle datazioni delle opere, che il metodo di Teofilo fosse più antico e quelli di Biringuccio più recenti, ma coevi fra loro perchè hanno in comune molte fasi di lavorazione, differenti da quelle corrispondenti di Teofilo, come il costante uso  della "falsa campana" di argilla nel primo, rispetto al modello in cera del secondo. I dati archeologici hanno però dimostrato che esistono, in tutto ma più spesso in parte, casi Biringuccio più atichi dell'autore e casi Teofilo assai più recenti. A questo punto la Neri ipotizza una spiegazione possibile: fin dalla prima evoluzione delle campane esistevano due aree con tradizioni differenti, quella centro-nord europea, che nella fase iniziale ha conservato più a lungo le piccole campane di ferro e sul quale filone in seguito sviluppatosi si possono essere innestate le successive esperienze di Biringuccio; quella mediterranea, dove si erano già usati, per altri oggetti, bronzi ad alto tenore di stagno (per esempio la lega speculum) come richiedono le campane, alla quale si può legare Teofilo, anche per le sue frequenti citazioni di autori del mondo classico.

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Nel quarto capitolo l'autrice prende in considerazione i dati archeologici come descrizioni dei processi produttivi, per poterli mettere a confronto con quelli delle fonti scritte: metodo che andrebbe usato più spesso se si vuole ricostruire una storia dell'uomo e non solo dei suoi prodotti. E' un capitolo di carattere metodologico con interessanti proposte originali. Inizia con quattro matrici di Harris che illustrano come e dove si dovrebbero trovare nello scavo stratigrafico i vari indicatori della produzione, dedotti da ciascuno dei quattro processi produttivi descritti dalle due fonti studiate, se si fossero tutti conservati in posto. Inutile dire che, anche se una situazione di questo genere non si verificherà mai, è molto importante: sapere cosa manca e cosa si deve cercare, perché in genere si trova solo ciò che si conosce;  capire se in uno stesso impianto si trovano indicatori che appartengono a più processi differenti. A completamento segue una proposta di schedatura degli indicatori tipici dei quattro processi produttivi, con osservazioni sulle difficoltà causate dalla limitata conservazione dei dati di questo genere nei depositi archeologici.

 

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La Neri passa così al quinto capitolo dove viene affrontata la casistica rappresentata dalle schede di sette scavi di impianti produttivi, ritenuti dall'autrice più significativi per esemplificare i metodi trattati, con una discussione sulle varianti ai quattro processi descritti dalle fonti riscontrate nei depositi archeologici; varianti che a volte dipendono da evidenti problemi ambientali di cui bisogna sempre tenere conto anche nella schedatura, ma altre volte da cause per ora ignote.

 

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Il capitolo conclusivo non è una semplice sintesi che non dice nulla di nuovo, o con affermazioni definitive, positive o negative; vengono estratte dai vari capitoli le evidenze più importanti che sono emerse per farne un dialogo, alla maniera degli antichi, maniera che evita le verità assolute e che più si addice alla complessità delle realtà umane.

 

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Non posso concludere senza permettermi, come settantasettenne, qualche raccomandazione rivolta soprattutto ai giovani che, con piacere, vedo numerosi in questa sala, ma anche a quelli non presenti. Un pericolo per chi affronterà con entusiasmo lo scavo di un impianto produttivo di una campana è quello di considerare il libro della Neri, che certamente come ho detto rimarrà per molto tempo un caposaldo, una verità assoluta priva di possibilità di sviluppo e modifiche. Questo non è nelle intenzioni dell'autrice che lascia sempre delle vie e dei problemi aperti.Pensate cosa potrebbe succedere se venisse, per esempio, trovato un nuovo trattato: forse andrebbe d'accordo con qualcuno dei metodi già esposti, forse con nessuno e spiegherebbe certe anomalie rilevate nei dati archeologici, o forse no. Il presente libro va invece considerato come un grande aiuto, con molte raccolte di dati, con discussioni già impostate, ma sempre aperte, con schemi operativi molto utili come guida alla ricerca, ma che sono sempre indicativi e mai delle conoscenze totali.

Non si può neanche pensare che molti dati concordanti possano arrivare a delle verità storiche, come fa la scienza con le leggi naturali, perché la scienza può sempre ripetere quando vuole uno o molti esperimenti che confermino o facciano cambiare una teoria, mentre i fatti storici sono irripetibili nelle stesse condizioni, tranne che per scopi didattici. Lucia Ferrari sta tentando con la fonderia tradizionale di Avegno, presso Genova, di fondere una campana con il processo descritto da Teofilo: sarà molto utile per capire qualche aspetto manuale, o le temperature che Teofilo non poteva quantificare oggettivamente, o per capire qualche parola originale dubbia, ma non sarà mai un processo e un prodotto uguale a qualcuno di quelli del passato.

Non bisogna neanche pensare però che, a causa di queste differenze, i metodi scientifici non servano nelle conoscenze storiche. Non è la stessa cosa: trattandosi in qualsiasi produzione di problemi di cultura materiale, essi sono sempre legati a delle caratteristiche e a delle leggi naturali che nessuno può cambiare, né i dati archeologici, né gli autori del passato e tanto meno del presente, visto che viviamo in una cultura che contiene le conoscenze scientifiche. Nelle fornaci, per esempio, non esiste un tiraggio orizzontale senza quello verticale di una sufficiente lunghezza, perché la causa naturale immodificabile è dovuta al fatto che l'aria calda, essendo più leggera, sale rapidamente in un condotto che ne impedisca la dispersione, costituito quasi sempre dalla stessa fornace o da un camino, attirando dal basso quella meno calda, indipendentemente dal fatto che le aperture in basso, funzionanti da fornelli in quanto la combustione è favorita dall'arrivo di nuova aria ancora ricca di ossigeno, siano una o più di una, e che il primo percorso dell'aria sia orizzontale; la regolazione del tiraggio si fa più comodamente agendo sulla maggiore o minore chiusura superiore della fornace stessa.

Oltre alle leggi naturali sul funzionamento di un processo produttivo, ne esistono altre riguardanti i materiali impiegati che già fanno parte dell'archeometria; sono utili e a volte indispensabili. Per esempio: le composizioni chimiche delle leghe si possono ricavare da gocce di metallo cadute durante le singole gettate e, con le dovute attenzioni al loro eventuale degrado, sono utili per valutare il timbro e la potenza del suono delle varie campane; le analisi petrografiche e fisiche degli stampi e delle eventuali "false campane" possono servire a conoscere la plasticità del loro impasto di lavorazione, le temperature e le porosità raggiunte nella cottura ed altre cose ancora, oltre alle ben note datazioni archeometriche. Come è noto non si tratta di ricostruzioni della storia fatte con le scienze naturali, ma con la loro collaborazione dialettica: l'archeologo usa due fonti di informazione sullo stesso problema, quando confronta i suoi dati con quelli dei documenti scritti ed orali; ne usa tre, quando il confronto paritetico viene esteso ai dati che soltanto le scienze naturali possono fornire dal loro punto di osservazione del problema, e le sue capacità interpretative crescono in modo più realistico. Si sa che neppure le datazioni fatte con degli orologi naturali, che a volte sono le uniche disponibili, datano la storia dell'uomo, ma eventi naturali che si intrecciano con essa; spetta all'archeologo e all'archeometrista insieme stabilire il collegamento, sia nella scelta dei campioni da datare, sia nell'interpretazione storica dei risultati scientifici.

Tutto questo ci convince sempre di più che l'uomo deve essere il vero punto di partenza e di arrivo della ricerca archeologica, perchè essa non ha come finalità la storia della Terra, anche se non può esistere un uomo senza un ambiente, ed anche la stessa storia della produzione è soltanto uno degli aspetti della storia dell'uomo, che nella sua realtà non ha mai vissuto in modo separato come homo faber e come homo politicus, nel senso degli antichi, carico di problemi esistenziali: come ho già accennato, i suoi problemi esistenziali entrano anche nella sua visione della cultura materiale.

Torniamo allora ad un problema di questo tipo che emerge nella storia discussa in questo libro. Quando una famiglia mandava a bottega un ragazzo per imparare un mestiere non poteva sapere se lo sviluppo iniziale del suo cervello lo avesse "predisposto" a quel tipo di "arte", oppure no (credo che la psicologia naturalistica e le neuroscienze entreranno ben presto a far parte dell'archeometria). Con il procedere dell'apprendistato questo fatto è venuto a galla: nel secondo caso il giovane poteva anche cambiare mestiere, ma era troppo costoso e si sarebbe sentito umiliato; era quindi destinato a diventare un buon maestro conservatore, che cioè applicava sistematicamente i metodi imparati e, se incontrava casi di difficile applicazione, cercava di forzare l'ambiente alle "regole dell'arte", oppure lasciava il caso ad altri. Se invece era un "predisposto", nel caso difficile provava piacere nell'adattare le regole all'ambiente sfavorevole, senza menomarle, e a studiare anche soluzioni nuove che qulche volta avrebbero potuto sfociare, anche per caso, in qualche miglioramento: sono gli stessi maestri che capiscono al volo le nuove esigenze dei committenti e studiano subito cosa è possibile cambiare, con poco rischio e con qualche sperimentazione, nella produzione.

Se non fossero esistiti diversi artigiani di questo genere nel campo delle campane, saremmo ancora alle campanelle di bronzo e di ferro dei primi tempi, e questo millenario strumento sacro di telecomunicazione e le relative torri di sostegno non sarebbero esistiti.

Ritengo grandi fortune della mia vita di ricercatore l'avere partecipato a studi interdisciplinari di manufatti ricchi di informazioni. nel campo della metallurgia, oltre alla collaborazione durata cinque anni con Silvia Lusuardi Siena sulla Corona Ferrea [7], quelle sui Bronzi di Riace e sul Cavallo attribuito a Lisippo dei Musei Capitolini [8], sull'Officina orafa altomedievale della Crypta Balbi [9] e, infine, la collaborazione richiestami dall'Opera del Duomo di Pisa durante i restauri dell'unica porta di bronzo del XII secolo sopravvissuta all'incendio del Cinquecento [10]; tutti importanti per quanto vi ho detto ora, ma l'ultimo costituisce un esempio più vicino ai problemi di questo libro.

Dai documenti si sa che il maestro incaricato dall'Opera era il Bonanno, uno scultore di pietra che in questa occasione accettò per la prima volta di affrontare il bronzo. Gli studi tecnici delle grandi formelle e dell'orditura di sostegno della porta hanno dimostrato conoscenze metallurgiche molto mature che il Bonanno non poteva avere acquisito in poco tempo, e che in quel periodo, e per le dimensioni delle singole parti, potevano derivare solo dalla collaborazione di maestri fonditori di campane praticanti il metodo a cera persa, tipico del trattato di Teofillo. Nella foggiatura lo scultore fu attratto dalle possibilità plastiche che la cera offriva rispetto anche al migliore marmo statuario, e le sfruttò al massimo, come nelle palme dei paesaggi palestinesi della vita di Cristo, che escono a tutto tondo dal suolo per rientrare nel cielo con la chioma, creando una percezione tridimensionale, di cui ancora nel Rinascimento si fanno esperienze e discussioni su come ottenerla nei bassorilievi. In cambio il Bonanno si è accorto dopo la fusione di non avere sfruttato a pieno la cera per certi particolari che ora riteneva importanti, e allora pensò di fare ricorso ai suoi scalpelli da amrmo per completare certe parti architettoniche (si trattava di un bronzo più povero di stagno rispetto a  quello delle campane, troppo fragile per una porta, che oltretutto non doveva emettere suoni), ma usò anche bilini ed altri strumenti, di cui non poteva apprenderne l'uso che dagli orafi, per certe finiture, molto realistiche per quel tempo, degli abiti e di certi animali.

In questo caso, abbiamo il manufatto stesso e qualche suo dato archeometrico, oltre a qualche documento e alle regole della cultura materiale che ci raccontano certi aspetti della produzione, ma ci manca il deposito archeologico che conteneva gli indicatori delle tecniche produttive. Non dobbiamo però dimenticare che negli scavi di siti produttivi ci manca, tranne in rari casi, il prodotto reale, che più facilmente ci fa capire che l'uomo, specialmente quando è un "predisposto" ad una certa "arte", non è un robot; ma anche la somma dell'impianto produttivo e del suo prodotto non ci fornirebbe comunque una visione reale, come se guardassimo da una "finestra", da cima a fondo, il maestro al lavoro; ci permeterebbe tuttavia di immaginarlo con una approssimazione abbastanza attendibile.

Penso infine che sarebbe utile un Centro che raccogliesse tutti i dati sulla produzione e la funzione delle campane, vecchi e nuovi,che potrebbe far capo all'Istituto di Archeologia dell'Università Cattolica, visto che è quello che ha avviato questa ricerca pluridisciplinare. Lo scopo principale dovrebbe essere, oltre a realizzare la banca dati, quello di classificare sulla base delle loro caratteristiche le anomalie, man mano che vengono riscontrate, nei confronti dello schema interpretativo proposto in questo libro. Infatti, solo in questo modo è possibile verificare se una determinata anomalia si presenta in coincidenza di un qualche fattore, spesso trascurato nei singoli casi, perchè non se ne vede il legame con l'anomalia stessa, mentre il ripetersi delle coincidenze indica nuove vie da seguire nelle indagini: nei sistemi conoscitivi, sia scientifici che storici, è ormai evidente che quando una teoria, o un'ipotesi interpretativa, continua a scontrarsi più volte con la stessa contraddizione, bisogna dimenticare il filone finora seguito e cercarne uno che permetta di coesistere a ciò che è rimasto valido con ciò che è contradditorio.

 

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Note

 

* ISCUM, Genova

1 Elisabetta Neri, De Campanis Fundendis. La produzione di campane nel medioevo tra fonti scritte ed evidenze archeologiche, introduzione di Silvia Lusuardi Siena, disegni di Remo Rachini, Milano 2006.

2 Neri 2004 pp. 53-98.

 

3 Cfr. Angelino, infra.

4 Bonora 1975, 123-160.

5 Una traduzione recente, ma non "archeologica" è quella di Caffaro 2000.

6 Dell'opera di Della Fratta, metallurgista toscano, si ha un'edizione recente curata da Cima 1985

7 Mannoni 1998, p. 13-16; Mairani, Cucchiara, Mannoni 1998, pp. 52-60; Mannoni 1998 a, pp. 61-70

8 Cfr. Mannoni 1998 b

[9] Cfr. Giannichedda, Mannoni, Ricci 2001.

[10] Cfr. Mannoni 1999.

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Bibliografia

Bib-ST-000 - Testo di Ing. Arch. Michele Cuzzoni

Bib-ST-156 - Monografia di Tiziano Mannoni

Bib-ST-047 - Bonora F., Castelletti L., 1975, Scavo di una fornace da campana in S. Andrea di Sarzana, «Archeologia Medievale», II, pp. 123-160.

Bib-ST-157 - Caffaro A. 2000, Teofilo Monaco. Le varie arti. De diversis artibus. Manuale di tecnica artistica medievale, Salerno.

Bib-ST-158 - Cima M. 1985, Introduzione a Della Fratta, Montalbano M.A., Pratica Minerale, Firenze.

Bib-ST-159 - Corona Ferrea = La Corona Ferrea nell'Europa degli imperi, a cura di G. Buccellari, 1-4, Milano, 1998.

Bib-ST-160 - Giannichedda E, Mannoni T., Ricci M. 2001, Le ricerche sui cicli produttivi nell'atelier della Crypta Balbi, in Roma dall'Antichità al medioevo. Archeologia e storia, a cura di M.S. Arena, P. Delogu, L. Paroli, M. Ricci, L. Saguì, L. Venditelli, Milano, pp. 331-335.

Bib-ST-161 - Mairani A., Cucchiara A., Mannoni T. 1998, Analisi dei granuli di stucco terroso, in Corona Ferrea, 2, 2, pp. 52-60.

Bib-ST-162 - Mannoni T. 1998, Progettazione e conduzione delle ricerche tecnico-scientifiche, in Corona Ferrea, 2, 2, pp. 13-16.

Bib-ST-163 - Mannoni T, 1998 a, Dati cronologici ricavabili dalle analisi scientifiche, in Corona Ferrea, 2, 2, pp. 61-70.

Bib-ST-164 - Mannoni T., 1998 b, Esempi di uso incrociato delle fonti archeologiche, in Archeologia-Archeologie. Ricerca e metodologia. Atti della IX Giornata Archeologica. Università di Genova, pp. 167-178.

Bib-ST-165 - Mannoni T. 1999, Continuità e discontinuità nelle tecniche del bronzo, in La porta di Bonanno nel Duomo di Pisa e le porte bronzee medievali europee. Arte e tecnologia. Atti del Convegno (Pisa 1993). Pontedera, pp. 147-150.

Bib-ST-153 - Neri E. 2004, Tra fonti scritte ed evidenze archeologiche: un modello per interpretare i resti materiali della produzione di campane, "Archeologia Medievale", XXXI, pp 69-114.

 

 

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