Le fonderie
AREA I - ARTE TECNICO-SCIENTIFICA (ATS)
Cap. ATS-I02 - Fonderia - Pag. ATS-I02.03
Gli argomenti trattati sono stati inseriti da Ing. Arch. Michele Cuzzoni nel 2008 - © Copyright 2007- 2024 - e sono desunti dalla documentazione indicata in Bibliografia a fondo pagina
Tipi di Fusione: a matrice, a cera perduta.
Antiche tecniche di fusione a cera persa.
Martellatura.
Imbutitura: su tornio
Filatura: sei sistemi di filatura
Giunzione: ripiegatura, ribattini, saldatura (brasatura [dolce, forte], autogena)
Damaschinatura.
Il metallo fuso
veniva colato in una matrice ove solidificandosi si otteneva l’oggetto voluto. In pratica nella
matrice (realizzata in argilla, pietra (spesso steatite), impasto a base di
sabbia o lega di rame) veniva riprodotto in negativo l’oggetto. La matrice
doveva comunque avere un punto di fusione più elevato rispetto al metallo
gettato. Le matrici potevano essere: -
Univalve o a un pezzo solo o aperto: in questo tipo
l’oggetto usciva con superficie piatta che doveva essere successivamente
martellato per fargli ottenere una forma simmetrica. Venivano probabilmente
coperte con un’altra pietra piatta per evitare una eccessiva ossidazione del
getto. -
bivalve: realizzata in due o più elementi scomponibili in cui veniva colato il metallo fuso ottenendo così oggetti a tutto tondo. Volendo ottenere cavità nel getto di fusione (come nelle immanicature a cannone) si poneva un’ "anima", ossia pezzi di refrattario nella matrice posizionati in modo da ottenere il vuoto nel punto desiderato. La tecnica della matrice scomponibile in più elementi si sviluppò nell’età del bronzo. Il metallo fuso veniva
colato nella matrice che era posta verticalmente o leggermente inclinata. Per
permettere la fuoriuscita dei gas, che potevano creare porosità nel metallo,
venivano creati degli appositi cataletti. Una volta raffreddato
il getto, si apriva la matrice e l’oggetto ottenuto veniva rifinito e ribattuto.
Operazione quest’ultima che oltre a incrudire il metallo dava all’oggetto la
forma definitiva.
Tecnica adoperata soprattutto per piccoli oggetti e nell’oreficeria, ove era richiesta una particolare finezza.
Il metodo consisteva nel modellare l’oggetto in cera malleabile applicandovi
sopra bastoncini di cera (o di sambuco che si inceneriva al calore) in modo da
realizzare canali di scolo per la cera fusa e un canale per la colata del
metallo fuso e la fuoriuscita dei gas.
Il modello in cera viene poi ricoperto da uno strato fine e fluido di materiale
refrattario (argilla mista ad altra sostanza come corno bruciato, sterco ecc.)
che riproduce in negativo l’oggetto.
Si aggiungono altri strati sempre più grossolani e resistenti, sino ad inglobare
il modello in cera in una forma. Questa una volta induritasi la si poneva in una
fornace che faceva sciogliere la cera (da cui il nome di "cera perduta").
Nella cavità ottenuta si colava il metallo fuso che, una volta raffreddato, si
rompeva la forma ottenendo così l’oggetto.
Ultima fase era la sua rifinitura superficiale. Lo stampo poteva essere
adoperato solo una volta. Questa tecnica, detta anche "tecnica
diretta piena", era per lo più adoperata in oreficeria e nei piccoli
bronzetti. Per ottenere invece oggetti cavi, come nella grande statuaria, la cera veniva spalmata su un’anima in terracotta, porosa per assorbire i gas che si sviluppavano durante la fusione. Per evitare che l’anima si spostasse durante la fusione per la scomparsa della cera, si infiggevano nell’anima chiodi metallici sporgenti (distanziatori) che trapassavano anche lo strato di cera. Il tutto poi si ricopriva con terra di fusione (tecnica
diretta cava). Un’altra tecnica era quella
cosiddetta "tecnica indiretta", ove da un originale si ricavava una matrice negativa in gesso o terra, a due o più valve. In questa matrice si versava la cera fusa che solidificatasi permetteva di ottenere un modello in cera che, ritoccato, si utilizzava per la fusione (tecnica indiretta piena).
Per ottenere una fusione cava l’interno di una matrice veniva ricoperto da uno strato di cera e poi si inseriva nella cavità terra di fusione (tecnica indiretta cava). Questo sistema (l’indiretta) consentiva di salvare la matrice.
La tecnica della "cera perduta" si utilizza sin dal III millennio nella oreficeria medio orientale diffondendosi poi tramite Cipro e la Sardegna (XII sec. a.C.) nel bacino occidentale del Mediterraneo (in Etruria ove fra la fine dell’età del ferro e l’orientalizzante antico si innestò sulla matrice villanoviana). Tale tecnica venne adoperata ampiamente nel mondo greco e romano, sin da prima del VI sec. a.C., nell’ambito dei grandi bronzi.
Tra le popolazioni del bacino Mediterraneo, gli Etruschi erano conosciuti ed apprezzati come esperti nello sfruttamento delle miniere e nella lavorazione dei metalli. Oggetti finiti di metallo di origine etrusca si trovano in grande abbondanza al di fuori dell’area geografica di stanziamento, segno questo di intensa attività di esportazione di questo tipo di manufatti. Essi rappresentavano una merce di scambio di notevole valore con cui bilanciare l’importazione di una massa di merci di tutti i generi che affluiva nei porti dell’Etruria specialmente nel periodo di maggior ricchezza, chiamato “orientalizzante” (VII a.C.).
L’abbondanza di ricchi giacimenti di minerali del ferro e del rame, come anche del piombo e dell’argento, della Toscana (Colline metallifere, Campiglia, Massa Marittima e Isola d’Elba) e del Lazio (Tolfa, Allumiere), unita alle capacità tecniche già notevolmente sviluppate in Età Villanoviana (sia nell’estrazione dei minerali, che nella loro successiva riduzione nei forni fusori), rese possibile l’accumularsi di ricchezze e l’accentrarsi di popolazioni in centri di produzione e di commercio. Risulta tipico, a questo proposito, l’esempio di Populonia, vera e propria città industriale, legata allo sfruttamento del ferro. Proprio attraverso la circolazione commerciale dei manufatti ed il probabile stanziamento di artigiani e tecnici provenienti dai paesi del Mediterraneo orientale (specialmente dalla Grecia ed Asia Minore), arrivarono anche nuove tecniche di lavorazione dei metalli, che resero possibile un ulteriore aumento della produzione di massa di oggetti metallici: tecniche di giuntura, come la “saldatura a stagno”, la
tornitura del metallo e la fabbricazione di vasi direttamente per getto.
Anche il perfezionamento delle tecniche di fusione a cera persa, per manufatti artistici di grosse dimensioni, come la Chimera di Arezzo, si sviluppa appunto in questo clima di attività artistico - artigianale - industriale e di reciproci scambi di esperienze tecniche con i popoli con i quali si tiene un intenso rapporto commerciale, specialmente per via mare.
Infatti, a partire dalla fine del VI sec. a.C., la graduale acquisizione di nuovi mezzi tecnici per la costruzione di statue bronzee, quali la tecnica indiretta della cera persa (costruzioni di parti separate di statua per mezzo di modelli di cera desunti da matrici ausiliarie, cioè da calchi del modello iniziale), rende possibile la creazione di grossi bronzi, per i quali l’estensione nello spazio tridimensionale e la presenza di difficili parti “in sottosquadra” non creano più insormontabili difficoltà tecniche.
Nella costruzione di grossi bronzi a fusione cava si applicava la
tecnica a cera persa.
Quando il modello di cera è costruito su un’anima di fusione in
terra, si tratta della tecnica a cera persa “diretta”;
quando invece si usano dei calchi tratti da un modello originale e si utilizzano
questi per costruire la cera ed in seguito l’anima di terra, si tratta della
tecnica “indiretta”. Ambedue i metodi erano
conosciuti in età classica sia dai Greci che dagli Etruschi.
Per prima cosa si costruisce un’intelaiatura di sbarre di ferro
disposte in modo da seguire le masse della composizione e sostenere il peso
della terra che verrà ammassata intorno ad esse. Questa terra, ancora morbida,
viene modellata secondo le linee di direzione principali dell’opera e
costituisce l’anima interna della statua. Il tipo di terra usata deve essere,
allo stesso tempo, modellabile e più magra e porosa possibile, per permettere la
fuoriuscita dell’aria e dei gas che si formano al momento del getto.
La superficie della terra, che costruisce l’anima della statua,
viene modellata con gli strumenti usuali per la ceramica (stecche, spatole ecc.)
fino ad ottenere una forma di dimensioni leggermente minori rispetto alla futura
statua di bronzo. L’anima deve essere poi asciugata perfettamente e cotta,
dopodiché viene ricoperta con uno strato di cera su cui si esegue il vero e
proprio lavoro di modellaggio e rifinitura.
Sulla cera si trattano tutti i particolari minuti della figura
come le unghie, le venature ecc. Lo spessore della cera non potrà essere
agevolmente controllato perché aggiungendo o togliendo cera durante la
rifinitura, non è sempre possibile mantenere lo stesso livello di superficie.
La successiva fase di lavoro consiste nel sistemare la rete di
canali per l’entrata del metallo e l’espulsione dei gas. Ciò avviene collocando
bastoncelli di cera nelle zone più idonee in modo da impedire il formarsi di
bolle e sacche d’aria e in modo da facilitare la distribuzione del metallo
liquido anche nelle zone più rilevate e negli spazi di minore diametro.
Si procede poi coprendo il modello ed i canaletti con un
involucro esterno di terra. Questa è riportata a strati, cominciando con terra
molto fine adatta a riprodurre fedelmente tutti i particolari della cera e
proseguendo poi con terra più grossolana, in modo da ricoprire completamente
tutti i canali.
Dopo aver lasciato ben asciugare il tutto all’aria, si riscalda e
si cuoce tutta la massa per togliere ogni residuo di umidità ed allo stesso
tempo per eliminare la cera (fatta defluire da appositi canali), mantenendo lo
spazio vuoto che dovrà accogliere il bronzo fuso.
Per impedire che l’anima interna si sposti rispetto all’involucro
esterno, una volta che tra di loro si è formato lo spazio vuoto, vengono in
precedenza sistemati dei chiodi distanziatori che, inglobati nelle due terre,
servono a impedire ogni movimento. La forma è ora pronta per il getto del bronzo
fuso, fatto defluire direttamente da un forno o da crogiuoli.
Si prendono i calchi in tasselli del modello originale rifinito nei particolari. I tasselli vengono poi rivestiti internamente con uno strato uniforme di cera e risistemati insieme.
Si ricava in questo modo uno spazio vuoto nel cui interno vengono inserite le sbarre di ferro e la terra di fusione.
Prosciugata la terra si tolgono i calchi, si ripulisce la cera dalle sbavature e si ritoccano i particolari. Da qui in poi si procede allo stesso modo della tecnica diretta.
Tecnica che partendo da una lamina permetteva di realizzare del vasellame per deformazione plastica, sfruttando la duttilità del metallo. Era già nota dal III millennio a.C. nel vicino oriente.
Con una mazza si appiattiva (a freddo) un massello di metallo o minerale grezzo. Il disco che si otteneva veniva posto su una superficie piana o concava e martellato.
Per forme più complesse il disco veniva posto sul braccio piatto dell’incudine o su un paletto, martellandolo tutt’intorno dall’esterno e ruotando progressivamente.
In ambedue i casi il pezzo doveva essere ricotto per ridurre la fragilità del metallo causata dal martellamento, soprattutto se si trattava di oro, argento o rame. Si realizzava riscaldando e raffreddando lentamente il metallo per aumentarne la duttilità.
Tale tecnica si basava sull’uso del tornio per produrre vasi metallici e venne adoperata raramente prima del IV sec. a.C., più frequentemente in età ellenistica.
La lamina veniva fissata alla matrice precedentemente fissata al tornio e fatta girare. Con appositi strumenti si effettuava la compressione sino a far aderire completamente la lamina alla matrice.
Il tornio poteva essere adoperato anche per cancellare le tracce di martellatura.
I metodi adoperati in antico per produrre fili sono sostanzialmente sei:
1 – Martellamento di un tondino di metallo al quale si riduce progressivamente il diametro cercando di mantenerlo quanto più possibile circolare. La superficie si presenta sfaccettata e può venire regolarizzata nel caso di metalli morbidi (come l’oro puro) rotolando il filo fra due superfici dure e piatte. Tuttavia il diametro non sarà mai uniforme.
Adoperato dall’età protostorica al Medioevo.
2 – Martellando si produce una verga a sezione quadrangolare che poi veniva torta sino a farle incontrare gli spigoli. Le costolature elicoidali si potevano eliminare per rotolamento o lasciate a scopo decorativo. I fili realizzati con questa tecnica presentano uno spessore abbastanza regolare ed hanno sulla superficie quattro solcature elicoidali indipendenti.
Adoperata dall’età protostorica al Medioevo.
3 – Per lo più adoperata con metalli duttili come l’oro, questa tecnica nella torcitura di una striscia di lamina sui lati corti, producendone la deformazione plastica. Si otteneva così un filo pieno con due solchi elicoidali.
Utilizzata comunemente dagli orafi etruschi.
4 – Una striscia di lamina veniva accartocciata facendone accostare i bordi facendola passare attraverso una serie di fori sempre più piccoli, avendone appuntito previamente le estremità. A differenza della trafilatura il filo non subisce un effettivo allungamento. Il diametro è alquanto omogeneo e la superficie presenta una linea di sutura per lo più elicoidale.
Tecnica che si riscontra in alcuni manufatti egiziani ma probabilmente diffusa anche nell’Europa della tarda età del bronzo, se alcune lamine in rame con fori si possono interpretare come "protofiliere".
5 – Simile alla precedente tecnica solo che per una maggiore regolarità la lamina veniva ritorta attorno ad un filo (anche di tessuto) poi eliminato. Si otteneva così la cavità interna. Il prodotto finale era pressato fra due superfici piatte e lisce oppure fatto passare attraverso fori.
Tecnica adoperata per i ricami in oro anche dagli etruschi.
6 – La lamina veniva piegata al centro per dargli una sezione a C mediante martellatura e arrotolamento. Sulla lamina appare un solco longitudinale che in sezione penetra verso l’interno.
Tecnica adoperata per i manufatti cretesi dell’età del bronzo.
A ripiegatura: gli orli di due lamine metalliche venivano ripiegate insieme e martellate al fine di ottenere una maggiore compattezza e presa delle componenti.
A ribattitura: gli orli di due lamine venivano sovrapposti e forati. Nei fori venivano inseriti i rivetti e ribattuti con martellatura a freddo. Generalmente i rivetti sin dalla preistoria erano prodotti in materiale più malleabile rispetto all’oggetto da giuntare.
Adoperata già ad Ur nel 2.500 a.C., nei vasi metallici micenei, in Italia meridionale in contesti del bronzo medio iniziale.
Collega due parti in modo permanente. La saldatura si distingue in due categorie:
- brasatura: nella quale il saldante (un metallo o una lega) viene colato fra due parti da unire e lasciato solidificare;
- autogena: sono gli stessi metalli da collegare che partecipano al processo di saldatura.
La brasatura a sua volta poteva essere dolce o forte:
- dolce: realizzata con leghe bassofondenti (-400°) tipiche dello stagno-piombo. Meccanicamente non sopporta sforzi elevati e si applica su superfici abbastanza ampie.
- forte: realizzata con leghe altofondenti (+400°), generalmente di rame, argento e ottone. E’ robusta e richiede una piccola superficie.
Una particolare brasatura al rame è la "saldatura colloidale" impiegata nell’oreficeria antica per lavori a granulazione e in filigrana.
Per evitare la formazione di una patina di ossidazione sul metallo in presenza di aria, che interferirebbe con i processi di saldatura, si applica una sostanza: il fondente. Tale sostanza applicata sulle parti da saldare le tiene pulite e isolate dall’ossigeno. A tale scopo si usa il borace o il cloruro di zinco.
Entrambe le tecniche di brasatura erano già utilizzate nel vicino oriente dalla prima metà del III millennio a.C.. Mentre quella forte incontrò una vasta diffusione, soprattutto per i metalli preziosi, la dolce si utilizzò in particolare in età greco-romana.
La saldatura autogena invece è la giunzione di pezzi di metallo previo riscaldamento e trattamento meccanico senza aggiunta di altri materiali.
In antico una particolare saldatura autogena era la "bollitura". I metalli venivano portati al "calor bianco" (stato pastoso) nella parte da saldare con il fuoco della forgia. Venivano poi giuntati per pressione o martellamento.
Usata soprattutto per il ferro (1350°C) sin dal XIV sec. a.C. dagli egiziani.
E’ la tecnica che prevede, tramite la "bollitura", l’unione di lamine di ferro con diversi livelli di carburazione, quindi diverse per durezza e fragilità. Si otteneva così una struttura complessa, a strati, in ferro accidioso, molto resistente ma elastica, ideale per lame. I diversi metalli conferivano anche un bel aspetto morezzato all’oggetto, molto apprezzato.
Tale tecnica si osserva già presso gli egizi intorno al 900 – 800 a.C.. In Italia è attestata in Etruria dal IV – III a.C.. In Europa centrale dal III d.C. ma ebbe un’ampia diffusione fra il V e il VII d.C. nell’alto Medioevo.
Il nome deriva da Damasco che con la conquista araba divenne un grosso centro di diffusione verso l’occidente.
Martellatura
Cesellatura
Sbalzo
Repoussè
Stampaggio
Smaltatura: cloisonnè, plique-a-jour, champlevè, basse-taille, smalti dipinti, smalti incrostanti
Niello
Intarsio: agemina
Patinatura
Doratura: giuntura meccanica, a mercurio
Serie di sfaccettature decorative ottenute tramite colpi di martello a file sovrapposte.
Incisione di un motivo sulla superficie superiore di un oggetto metallico.
Il cesello dal taglio a chiglia di barca, smussato, veniva battuto in maniera leggera e regolare con apposito martello così da lasciare per compressione un solco continuo e uniforme.
Notevolmente evoluto con gli Etruschi.
Il foglio di metallo era lavorato dal retro in modo che i rilievi si ottenessero sul davanti.
Rispetto al cesello gli strumenti erano ancora più smussati.
Il disegno viene sbalzato dal retro dell’oggetto e poi rifinito a cesello.
Già molto noto ad Ur nella prima metà del III millennio a.C., nella toreutica minoica, nell’Italia settentrionale preromana, nell’Europa Hallstattiana.
Si imprimeva sul retro della superficie metallica, spesso una lamina, una o più immagini pigiando la lamina dentro o sopra una forma.
Oppure utilizzando un punzone che riproduceva sulla testa il modello. Raramente avveniva lo stampaggio sula davanti, incavando l’immagine (conio).
Diffuso nella gioielleria antica.
Tecnica che decora oggetti metallici con vetri colorati.
Le basi potevano essere l’oro o l’elettro, talvolta l’argento; il bronzo venne adoperato nella gioielleria romano-celtica, il bronzo dorato nel Medioevo.
Nota già ai Sumeri, Egizi, fu solo in età micenea, nel XV sec. a.C., che appaiono gli smalti direttamente fusi sul pezzo.
Sia presso i Greci (V-IV sec.) che presso gli Etruschi (VI-V sec.) questa tecnica venne usata con parsimonia come anche presso i Romani. Con i Bizantini invece ebbe una straordinaria fioritura.
La base vetrosa degli smalti (fondente), trasparente e quasi incolore, è composta da una miscela: silice o sabbia (ca. 50%), minio (ossido di piombo) (ca. 35%), potassa (carbonato di potassio) o soda (carbonato di sodio) (ca. 15%) fusi insieme. Il colore si ottiene aggiungendo al fondente fuso ossidi metallici (2-3% della misura totale) e mescolando. Raffreddato lo smalto viene frantumato e macinato in acqua. Le polveri colorate vengono applicate sul metallo e scaldato in fornace ove, sciogliendosi, divengono una solida e aderente pellicola vetrosa.
Gli smalti dipinti tuttavia non entrano in uso che in età rinascimentale e prevedono l’applicazione di diversi strati di smalto ogni volta passati in forno e ricoperti poi da uno strato di smalto trasparente. Sempre rinascimentali sono pure gli smalti incrostanti utilizzati soprattutto per arricchire una superficie irregolare.
A sua volta l’applicazione dello smalto sul metallo può avvenire in vari modi:
(= Diiviso da cellette) la polvere vetrosa viene applicata all’interno di cellette in filo metallico predisposte sull’oggetto.
Adoperata già dagli orafi micenei del XV sec. a.C., in ambito greco e magno-greco.
Ampiamente utilizzato dagli artisti bizantini tra il VI e il XII sec., questa tecnica venne adoperata in tutto il Mediterraneo sino all’età romanica e oltre.
In questa tecnica manca la base metallica per cui le aperture sono totalmente riempite di smalto trasparente e lucido.
Venne utilizzata soprattutto tra il XIV e il XVI sec.
In questa tecnica la lamina metallica viene incisa, scanalata o intaccata con acidi e tali cavità vengono riempite con smalti sino a livello della parte non incisa che in genere ha un fondo dorato.
Utilizzata in età romana, soprattutto in area occidentale per ornamenti bronzei. Ebbe un particolare sviluppo anche nel XII e XIII sec.
La base metallica è lavorata a bassissimo rilievo con il cesello.
In questo modo le variazioni di profondità delle incisioni, ricoperte da smalto trasparente, producono differenti sfumature cromatiche. Venne soprattutto utilizzata in età gotica in Francia e Italia.
In questa tecnica al posto dello smalto vetroso si adoperano uno o più solfuri metallici, ottenendo una sostanza nera che veniva colata in cavità predisposte su base metallica generalmente in oro o argento.
Nota già in età micenea, in età classica la si otteneva ponendola nelle cavità sotto forma di polvere, che dopo un leggero riscaldamento diveniva plastica e quindi facilmente lavorabile.
Nell’XI sec. la composizione del niello cambiò trasformandosi in un miscela di zolfo, rame, piombo e un poco d’argento.
E' la tecnica di inserire in un vano ricavato in un metallo pezzi di materiale differente (pietre dure, conchiglie, coralli ecc.) al fine di ottenere effetti policromici.
L’agemina invece, pur appartenendo alla categoria degli intarsi, è prodotta dalla contrapposizione di metalli diversi, cioè è una lamina che si pone negli incavi ricavati su un’altra lamina.
Tecnica già nota in Egitto, nell’Egeo del II millennio, dalle popolazioni micenee sin dal XVI sec. a.C. In età classica nella statuaria e a Roma, in particolare nel vasellame.
E' l’alterazione voluta dello strato superficiale del metallo sia con il calore che con agenti chimici. E’ difficile capire se in antico gli oggetti in metallo subissero una patinatura dato che di per sé i metalli in natura tendono a ricoprirsi di una patina.
Tecniche erano comunque note in età classica e romana (bronzo A di Riace, frammento bronzeo di Volubilis, bronzo da Salamina) ma anche nel Giappone del XII sec. d.C.
Tuttavia era già nota in Egitto dalla XVIII dinastia, nella Grecia del II millennio.
In epoca romana andò in voga il "Corinthium aes" una lega affine allo "shakudo" giapponese, di oro e argento. In pratica sulla base delle percentuali dei metalli e della loro quantità si otteneva la patina voluta.
Si hanno due sistemi: il primo era di battere l’oro in sottili lamine da applicare sull’oggetto; il secondo era l’applicazione a caldo dell’oro tramite il mercurio.
Il primo sistema era già noto in Siria dal 3.000 a.C. ma anche in età classica nella statuaria.
A volte i due metalli venivano martellati insieme e poi ricotti (Etruschi).
Il secondo sistema invece si applica o spolverando di mercurio la superficie sulla quale poi si metteva la foglia d’oro oppure oro amalgamato col mercurio, spalmato e poi sottoponendo l’oggetto al calore, ottenendo così la doratura per evaporazione del mercurio. Questa tecnica sembra apparire già nel IV sec. a.C. in Grecia (Vergina), in età ellenistica, e diviene comune nel II-III d.C.
In Cina appare nel IV-III a.C.
Godronatura
Filigrana
Granulazione: a pulviscolo, saldatura colloidale
Tecnica che consisteva nel porre i fili sotto una piastra scanalata e farli rotolare sul piano, ottenendo così le scanalature. Queste potevano dar luogo a vari tipi di ornato.
Nota già dalla metà del II millennio in Anatolia, si sviluppò e perfezionò in Egitto dal Nuovo Regno, Cipro micenea e nel VI a.C. in Etruria, Tracia e Iran. Trovò impiego nell’oreficeria classica ed ellenistica della Grecia e in misura minore a Roma. Intorno al X sec. d.C. con l’introduzione delle filiere questa tecnica decadde.
Tecnica basata sulla saldatura di fili metallici (anche ritorti) sopra una superficie preziosa, per ottenere un motivo decorativo, a volte associato alla granulazione.
I primi esempi si hanno a Ur dalla metà del III millennio. Ebbe un notevole sviluppo in Etruria e a Roma.
Ottenne un notevole successo nel Medioevo.
Consiste nel saldare su una superficie metallica delle sfere di diametro variabile, in genere pochi mm. I grani, in oro ma con esempi anche in argento, venivano disposti su file dritte o curvilinee in modo da realizzare complessi disegni.
Le prime attestazioni risalgono alla metà del III millennio (Ur, 2.500 a.C.); da qui si espande tramite la Siria e l’Anatolia verso Troia (metà e III quarto del III millennio a.C.). Gioelli a granulazione si sono rinvenuti anche in tombe del Medio Regno in Egitto. Nell’Egeo si ritrovano a Micene nel circolo A delle Tombe (metà XVI sec. a.C.) ma soprattutto nel XV sec.
I fenicio-punici ne fecero un ampio uso diffondendolo nelle colonie occidentali (VII sec. a.C.) e in Etruria sin dalla metà dell’VIII sec. a.C. ove si diffuse la "granulazione a pulviscolo" cioè minutissimi grani applicati sulla superficie metallica. Diffusa in età ellenistica decadde in età romana sia come produzione che come raffinatezza.
Si ritrova nell’Islam del VII sec. d.C. e nell’Europa medievale del IX e del X.
Con l’età moderna cadde in disuso e venne riscoperta solo nel 1920.
Le sferette si ricavavano da ritagli di metallo o frammenti di filo fusi in modo da assumere la forma sferica per la tensione superficiale. Tramite collanti organici (gelatine di pesce o vegetali) misti a sali di rame venivano posti sulla superficie realizzando il disegno e lasciando l’oggetto ad asciugare. Posto poi sul fuoco di carbone di legno il collante si scioglieva lasciando che i sali di rame mutassero in una lega bassofondente (890°) di oro e rame. I sali impiegati erano per lo più la malachite, l’azzurrite, la cuprite, il solfato di rame.
L’antica tecnica della "chrysocolla" (colla d’oro) indicava sia la malachite che il verderame.
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Bib-TS-092 - L. Mugnani - Manuale pratico di fonderia - Milano, 1928
Bib-TS-157 - Storia della tecnologia, a cura di Ch. Singer ed altri, vol. II, Torino 1962, pp. 482-487.
Bib-TS-158 - Antiche officine del bronzo, a cura di E. Formigli, Siena 1993